È in atto una strategia istituzionale di «contenimento» delle nostre produzioni d’eccellenza. Così nei prossimi vertici internazionali si giocherà il futuro di un intero settore.
Due nuove trilaterali portano un’offensiva all’agroalimentare italiano senza precedenti. Il motivo? Sta in questi numeri: il nostro Paese con lo 0,34 per cento di superfice coltivata del mondo (16,7 milioni di ettari, su 5 miliardi di cui 3,4 miliardi destinati a pascolo, e poi sotto accusa è la nostra zootecnia…) produce un volume di valore stimabile in circa 552 miliardi (più o meno il 15 per cento del nostro Pil considerando tutti gli indotti). Per rendere l’idea: le 10 multinazionali che da sole controllano il 70 per cento del mercato e hanno una platea di 500 brand fatturano 480 miliardi, e la produzione agricola dell’Europa vale 432,6 miliardi. Così è scattata l’invidia del bene, con la «b» come buono. Ecco finalmente i protagonisti della manovra.
La prima trilaterale è formata da istituzioni mondiali: Commissione europea, Onu e Fao, l’organizzazione mondiale del cibo e dell’agricoltura. La seconda è formata da Stati europei: la Francia che tutela la grande distribuzione, l’Olanda che ospita le sedi fiscali dei colossi dell’agroalimentare e la Germania che cerca di sfamare la Cina mettendo fuori gioco la concorrenza italiana. Con scuse nobilissime come quella di Franz Timmermans, olandese e vicepresidente della Commissione europea: «Non vogliamo dire alle persone cosa mangiare, ma vogliamo informarle sui contenuti di nutrienti nei cibi attraverso, per esempio, l’etichettatura». L’attacco c’è, la difesa per ora non si vede a cominciare dal ministro agricolo Stefano Patuanelli che da pentastellato pare più preoccupato della tenuta del (Giuseppe) Conte che della tutela dei contadini. La battaglia decisiva si combatterà da qui a qualche settimana quando a New York l’Onu – che già tre anni fa aveva provato a far fuori il made in Italy alimentare con ragioni «sanitarie» – terrà un mega vertice sull’alimentazione con Oms e organizzazioni ambientaliste pronte a chiedere la messa al bando della dieta mediterranea (Patrimonio dell’umanità per l’Unesco) perché ha troppe proteine animali e fa male all’ambiente.
Si è avuta un’anteprima il 26 luglio scorso a Roma (qui ha sede la Fao) dove Mario Draghi ha provato a imbastire una linea italiana, ma il politically correct lo ha travolto. Le preoccupazioni agitate sono la fame nel mondo, gli squilibri alimentari, l’immancabile «climate change». Sì, perché è a causa delle vacche chianine o piemontesi che si sciolgono i ghiacci. Perfino Papa Francesco è intervenuto dicendo che ci vuole giustizia alimentare e tutela ambientale visto che la pandemia ha incrementato le persone indigenti. Si stima che siano circa 880 milioni: il 12 per cento della popolazione e la soluzione, dicono, è produrre di più sfruttando meno il pianeta. Nobilissimi intenti, però dietro ci sono interessi colossali.
Bill Gates è preoccupato per il clima e vuole vendere al ricco Occidente la sua carne di laboratorio (prodotta da cellule staminali) perché dice che gli allevamenti rilasciano gas serra. Ci ha investito 2 miliardi di dollari e per adesso un hamburger artificiale costa sui 500 dollari. Quando gli hanno detto che gli africani non possono permetterselo ha risposto: loro un po’ di allevamento possono farlo, è l’Occidente che deve smettere.
Che senso ha, per esempio, continuare a coltivare ulivi quando si può fare tutto con soia o colza geneticamente modificate ? Si vuole estendere la coltivazione Ogm a tutto il mondo e a chi fa osservare che così i contadini non sono più proprietari dei semi e dipendono dalle multinazionali Monsanto o Cargill, si risponde: ma gli Ogm producono di più e consumano meno acqua. A chi obietta che il cibo è cultura e identità, la Nestlé dice: pensate alla salute e usate cibi che siano anche medicine, i miei.
Che la posta in gioco sia per l’Italia esiziale è stato evidente al vertice Fao. Il direttore generale è il cinese Qu Donguy e fa ovviamente gli interessi della Cina che nonostante stia spremendo l’Africa ha un grosso problema alimentare e studia il modello italiano. Potrebbe essere un parziale alleato, ma al vertice mondiale l’Oms, molto sensibile alle lusinghe delle multinazionali, è decisa a liquidare la dieta mediterranea. Alla Fao siede come vicedirettore generale anche il nostro ex ministro agricolo Maurizio Martina che con l’Expo 2015 fu l’artefice della carta di Milano firmata da 90 Stati. C’ è scritto che i punti fondamentali per uno sviluppo armonico sono il cibo come diritto umano fondamentale; la lotta allo spreco alimentare e di acqua; la tutela del suolo agricolo; l’educazione ambientale e alimentare; la salvaguardia della biodiversità; il contrasto al lavoro irregolare minorile; il sostegno al reddito degli agricoltori. Cioè il modello italiano che ora si vuole eliminare come un granello di sabbia finito negli ingranaggi del business planetario.
Perciò al prossimo G20 agricolo – il 17 e 18 settembre a Firenze, città sede dell’Accademia dei Georgofili, la più antica e autorevole istituzione di studio agricolo del mondo – si dovrebbe rilanciare la Carta di Milano. «È da lì» dice Mauro Rosati, direttore di Qualivita, «che bisogna partire, serve una scossa culturale, politica ed economica per tutelare il modello italiano, altrimenti molti dei nostri prodotti sono a rischio. Ma la battaglia va fatta anche in Europa contro la strategia “farm to fork”, che vorrebbe rendere sostenibile la produzione alimentare. Il punto è che sembra non esserci consapevolezza di questo rischio».
E qui si torna a Franz Timmermans che vuole mettere sotto schiaffo i nostri prodotti Dop: dai vini ai formaggi come Grana Padano e Parmigiano Reggiano, fino ai salumi, le carni e persino l’extravergine di oliva. La scusa sono le ragioni nutrizionali (le stesse dell’Oms). In commissione agricoltura ha agitato sondaggi tra i consumatori (si tratta di appena 500 questionari distribuiti tra Francia Olanda e Belgio, immaginare chi li abbia sponsorizzati non è difficile) per dire che gli europei non vogliono più mangiare grassi animali, né bere vino. Perciò serve il Nutriscore, l’etichetta a semaforo che piace tanto alla Nestlé (la più potente delle dieci multinazionali sorelle).
La proposta è: basta soldi per la promozione a tutto il made in Italy, anzi l’Italia restituisca i contributi che prende per produrre questi alimenti. Ricorda Luigi Scordamaglia di Filiera Italia: «Timmermans è così preoccupato di far decollare il Nutriscore che si scorda dell’etichettatura d’origine. Perché non vuole dire al consumatore anche da dove arrivano prodotti e ingredienti? Come Filiera Italia e Coldiretti siamo riusciti nell’ambito del Onu Food System Pre Summit a spiegare agli oltre 450 delegati da tutto il mondo come il pericolo vero è fare il gioco di quelle multinazionali o di quei gruppi di interesse che con la scusa di ridurre l’impatto ambientale hanno l’unico obiettivo di tagliare il filo esistente tra il cibo di qualità, la terra e gli agricoltori per spostare la produzione alimentare nei laboratori di poche multinazionali. Abbiamo mostrato il modello agroalimentare italiano per spiegare come questi valori devono essere comuni alle diverse culture e civiltà che hanno il vero nemico in chi vuole l’omologazione alimentare e i cibi sintetici e artificiali».
Questa è la posta in gioco e il presidente di Federalimentare Ivano Vacondio aggiunge: «Tutti questi attacchi, dal tentativo dell’Onu di tre anni fa al Nutriscore europeo, non hanno niente a che fare con gli interessi che dichiarano di voler tutelare: né l’ambiente né la salute; l’obiettivo sono le nostre quote di mercato». Chissà se nei palazzi della politica qualcuno se n’è accorto.