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L’Italia arranca sul potere d’acquisto. Berlino e Parigi ringraziano la Cgil

L’Italia arranca sul potere d’acquisto. Berlino e Parigi ringraziano la Cgil

Nel rapporto tra salari e inflazione la Germania ha un vantaggio del 26,5%. Pesano alcuni ritardi storici e il no di Landini ai rinnovi. In queste ore sta facendo campagna elettorale contro aumenti da 150 euro per gli statali

Non che il dato ci colga di sorpresa. E non che ci sia qualcosa di particolarmente nuovo rispetto al trend degli ultimi anni. Ma l’analisi di Confcommercio sulla perdita del potere di acquisto (considerando inflazione e crescita dei salari) dell’Italia rispetto a Francia e Germania (-26% su Berlino e 12,2% su Parigi) stride e non poco con l’inversione della maggior parte dei trend economici tra i tre Paesi. Mentre Standard & Poor’s promuove il rating dell’Italia, infatti, la Francia è alle prese con le reprimenda della agenzie che valutano la solvibilità del debito pubblico. Mentre Berlino arranca in recessione, l’Italia resiste. E soprattutto ha una stabilità politica che i suoi competitor europei possono al momento solo desiderare.

Eppure sul potere d’acquisto le differenze restano notevoli. Come mai? Ci sono ritardi atavici che riguardano sopratutto innovazione tecnologica, numero delle grandi imprese e di conseguenza produttività. Ma c’è anche un problema (grosso) legato alle rappresentanze sociali.

L’esempio di scuola ci passa sotto gli occhi in questi giorni. I sindacati sono impegnati in una lotta all’ultimo voto (dal 14 al 16 aprile) per il rinnovo dei rappresentanti della Pubblica amministrazione. Parliamo di circa 3 milioni di lavoratori e lavoratrici di scuola, università, ricerca, ma anche infermieri, ostetriche, tecnici sanitari, operatori socio sanitari e poi addetti di agenzie, ministeri, Regioni e città metropolitane che si recheranno alle urne per dare una preferenza che mai come quest’anno è diventata dirimente. Da una parte infatti ci sono i rappresentanti di Cgil e Uil che si sono opposti in tutti i modi all’offerta di rinnovo da 150 euro in media al mese proposti dall’Aran, grazie alle risorse messe in campo dal governo. Dall’altra c’è la Cisl che si è schierata a favore dei nuovi contratti, ma in più di un’occasione ha dovuto soccombere. Come è successo nella sanità, contratto che riguarda oltre 580.000 persone. L’Aran aveva messo sul piatto un aumento medio mensile di 172 euro sperando alla fine di poter arrivare a dama, come accaduto per il rinnovo dell’accordo che riguarda le funzioni centrali. Anche in quell’occasione infatti Cgil e Uil unite avevano boicottato l’intesa, ma la Cisl con l’aiuto delle sigle autonome era riuscita a raggiungere la maggioranza. Nella sanità invece non ce l’ha fatta. Dopo una lunga trattativa l’accordo è saltato per l’opposizione all’ultimo istante di una sigla autonoma, il Nursing up (in aggiunta ovviamente a Cgil e Uil). Così 580.000 lavoratori si sono trovati senza 170 euro lordi al mese in media in più in busta paga. Aumenti che riguardano il triennio 2022-2024, quindi una tornata contrattuale che è già scaduta. Ma bloccano pure il futuro. Perché se non si firma il 2022-2024 non è possibile neanche iniziare la trattativa per il triennio successivo. Con il paradosso di ritrovarsi per la prima volta nella storia con fondi già stanziati da un governo per due tornate contrattuali e dipendenti del pubblico impiego che sono costretti a restare a bocca asciutta.

E la stessa cosa potrebbe succedere per la scuola, dove però la partita è più combattuta e aperta e dove il personale coinvolto aumenta e non poco. Parliamo in questo caso di un rinnovo atteso da 1 milione e 200.000 lavoratori. Qui le trattative sono partite in ritardo ma il rischio di finire in un cul de sac è comunque molto elevato. Se si considerano tutte le categorie della Pa interessate dal rinnovo e che restano appese ai voleri di Cgil e Uil, parliamo di più di 2 milioni di lavoratori. Un’enormità. Al punto che il ministro Paolo Zangrillo è sbottato: «Per soddisfare le richieste di Cgil e Uil il governo dovrebbe stanziare 32 miliardi di euro solo per il rinnovo 2022-2024, quanto una robusta Finanziaria. Mi sembra evidente che non si possa fare». Eppure il ministro ha messo sul piatto circa 20 miliardi di euro. Risorse che al momento sono ferme. Perché Cgil e Uil pretendono di recuperare circa il 17% dell’inflazione del periodo e non si accontentano di percentuali intorno al 7%. Si potrebbe provare una mediazione. Ma la posizione dei sindacati è irremovibile e soprattutto parte da un ostracismo «senza se e senza ma» verso il governo. Basti pensare che nel 2018, gli stessi sindacati che oggi votano contro i rinnovi bloccando gli aumenti hanno firmato accordi con incrementi salariali del 3,4% a fronte di un carovita cumulato negli otto anni precedenti pari al 12%.

Tant’è che il ministro è tentato dal rinnovare quegli stessi contratti per legge. Si garantirebbe la parte salariale e verrebbe meno quella normativa, che prevede, tra le altre cose, più welfare e la cosiddetta settimana cortissima, lavoro fino al giovedì mantenendo il monte orario di una settimana «normale». Si può fare ma sarebbe una sconfitta per tutti.

Per questo il voto per la Rsu diventa fondamentale. E per questo motivo Zangrillo aspetta prima di muoversi. Intanto però non ci meravigliamo se il potere d’acquisto di Francia e Germania avanza e noi arranchiamo. Non dipende solo dalla Cgil, ma una buona parte delle responsabilità ce l’hanno Landini & C.

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