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Legge di Bilancio: caccia a 30 miliardi

Legge di Bilancio: caccia a 30 miliardi

La legge di Bilancio sarà un vero rompicapo tra debito in crescita a causa del Superbonus, prescrizioni della Ue e un’economia in frenata a livello globale. Probabilmente, ci si muoverà così.


Come fosse lo schema di un cruciverba, nelle caselle lasciate in bianco dal Documento di economia e finanza, il Def, si dovrà scrivere molto presto qualcosa. Le scadenze ravvicinate sono due, una terza, quella decisiva, è a ottobre quando si dovrà presentare la legge di Bilancio. Ma già dieci giorni dopo il voto – esattamente il 19 giugno – l’Europa busserà a Palazzo Chigi per notificare la procedura d’infrazione all’Italia per deficit eccessivo. Sarà il vicepresidente uscente con delega all’Economia Valdis Dombrovskis (va sempre ricordato che viene dalla Lituania, nazione con un Pil inferiore a quello della Lombardia) a dirci che siamo in fallo: oltre il 7 per cento quando il parametro è 3. Il titolato rappresentante della Commissione l’ha già ampiamente anticipato a gennaio. A Davos, infatti, dette questo giudizio: l’Italia dovrebbe rimettersi in linea con le raccomandazioni del Consiglio Ue. E ancora non c’era l’appena approvato patto di stabilità…

Gli ha fatto eco il commissario all’Economia Paolo Gentiloni – l’esponente del Pd in procinto di fare gli scatoloni da Bruxelles magari con destinazione via del Nazzareno, a Roma, dove molti lo vorrebbero al posto di Elly Schlein -, il quale pochi giorni fa dal Festival dell’Economia di Trento ha chiosato: «Se l’Italia non mette il proprio debito su una traiettoria discendente la risposta negativa potrebbe non arrivare dal mio successore, ma dai mercati». Una vera bacchettata preventiva sui nostri conti. Per ora però lo spread se ne sta tranquillo, anche se servirebbe che il presidente della Bce Christine Lagarde tagli i tassi o, alla lunga, gli interessi diventeranno assai pesanti. Nel frattempo, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti vede il debito in crescita (2.981 miliardi di euro quest’anno, 3.110 miliardi nel 2025, 3.224 miliardi nel 2026 e 3.306 miliardi nel 2027); ma assorbita l’emorragia dovuta al Superbonus (per ora sono stimati 122 miliardi, però il conto finale sfonda i 200 miliardi), dovrebbe cominciare una fase discendente. Questo gonfiarsi del debito non consente al governo alcuna manovra in deficit. E qui si arriva alla seconda data cruciale: entro il prossimo 20 settembre Giorgia Meloni dovrà notificare alla Ue il piano a medio termine di rientro dal disavanzo. Già dal 21 giugno la Ue notificherà (e ci penserà proprio Dombrovskis) quale debba essere la traiettoria di rientro dal nostro «rosso».

Non sarà un documento pubblico, ma un cosiddetto «non-paper», un modello possibile di accordo. Il patto di stabilità prevede che i Paesi ad alto debito (e noi abbiamo il secondo più consistente) possano spalmare i piani di rientro in sette anni; ogni anno devono abbattere il debito di uno 0,4 per cento e, quanto al deficit per riportarlo sotto il 3 per cento bisogna avere un miglioramento del saldo primario di un quarto di punto ogni dodici mesi, per sette anni. A conti fatti noi dovremmo mantenere un avanzo primario (al netto dunque degli interessi) di circa 3 punti all’anno. Ora ci sono abbastanza elementi per riempire le caselle a cui si faceva riferimento. Un taglio dello 0,4 per cento del debito significa mettere via 12 miliardi all’anno – l’avanzo primario sono 24 miliardi visto che la spesa dello Stato al netto degli interessi è 790 miliardi. Una mano può venire dall’incremento del Pil che il governo ha stimato attorno all’1 per cento, ma è previsione non del tutto condivisa. Un richiamo assai vigoroso è venuto dal Fondo monetario internazionale. Gli uomini di Kristalina Georgieva – l’arcigna direttrice dell’Fmi – scrivono che il nostro Pil non andrà oltre un pallido più 0,7 per cento nei prossimi due anni e che il Piano nazionale di ripresa e resilienza contribuisce a investimenti, supplendo al venir meno del trascinamento del Superbonus (che però ha provocato un vero infarto al nostro debito).

E gli stessi emissari dell’Fmi raccomandano, anche se questo non piace ai «laudatores» delle mance edilizie, «è possibile ottenere un aggiustamento di bilancio più rapido del previsto per ridurre il debito con un elevato livello di fiducia e con costi limitati per la crescita, ritirando misure anti-crisi inefficienti e temporanee». Superbonus docet. Ma c’è anche un passaggio poco piacevole per il governo Meloni, che è tra gli obblighi in capo a Giorgetti: «Sono possibili e auspicabili consistenti risparmi per finanziare misure che favoriscano la crescita e l’efficienza, sostituendo i tagli al cuneo fiscale e i sussidi alle assunzioni con misure che incrementino in modo permanente la produttività del lavoro». Qui comincia la sfida di ottobre: presentare una legge di Bilancio che soddisfi gli impegni presi e li rafforzi, ma non faccia saltare il banco. Il conto è presto fatto: ci sono quei 12 miliardi di euro per il rientro dal debito, ci sono 14 miliardi – tanto costano le misure di decontribuzione più la riduzione a tre aliquote fiscali-, a cui si aggiungono altri 4 miliardi per confermare tutte le misure temporanee (dai bonus agli sconti sui contributi per i neoassunti).

Secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio per varare la manovra 2024 servono almeno 18 miliardi di euro; per gli economisti della Cattolica, invece, il conto sale a 30 al netto dei miliardi da destinare per la riduzione del debito. Insomma, quota 30 miliardi è il minimo che il governo deve mettere in conto per ottobre, lasciando che gli investimenti siano solo (o quasi) quelli previsti dal Pnrr. C’è poi un’ulteriore incognita, ovvero la spesa sanitaria sulla quale la Corte dei Conti ha fatto un deciso richiamo giudicando gli stanziamenti «non in grado di fermare il decadimento dei servizi». È una previsione in linea con quella della Banca d’Italia che con Sergio Nicoletti Altimari, capo dipartimento Economia e statistica, sostiene: «Se gli sgravi contributivi come quelli del cuneo fiscale continuano ad avere un carattere non strutturale, il disavanzo rimarrebbe al di sopra del 3 per cento in tutti gli anni del periodo ’25-’27». Insomma Bankitalia raccomanda una riforma complessiva del fisco e del welfare. Ed è uno degli obiettivi della delega fiscale, che però si porta anche dietro la necessità di sterilizzare gli effetti perversi del Superbonus – quelli che il ragioniere dello Stato Biagio Mazzotta pare non avere adeguatamente considerato – e che oggi vincolano pesantemente la politica economica.

Da qui nascono gli equivoci rispetto al redditometro, che il viceministro Maurizio Leo di Fratelli d’Italia ha involontariamente innescato pur essendosi preoccupato di mettere al sicuro i 4 miliardi essenziali per confermare la riduzione a tre delle aliquote fiscali. Da qui ha anche origine l’ennesima, recente polemica relativa ai tagli di bilancio a Comuni e Province (1,25 miliardi in quattro anni) già scritti in manovra lo scorso ottobre. E, ancora da qui, arriva la necessità di fare bene di conto sulle pensioni – il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (Lega) conferma quota 41 dal prossimo anno per superare del tutto la legge Fornero – e soprattutto di rimodulare le detrazioni. In cerca di 30 miliardi è sicuro che Giorgetti non potrà imporre nuove tasse (è significativo a riguardo come il professor Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali, abbia ribadito come appena il 5 per cento degli italiani sostenga la spesa di 800 miliardi dello Stato, perché metà della platea di contribuenti versa quanto riceve e quasi tutta l’altra metà o non paga o ottiene più di quanto versa). Ecco che il ministro dell’Economia sarà costretto a muoversi tra tagli e razionalizzazioni. Per conoscere il «che cosa» e «dove», basta aspettare la soluzione del cruciverba Def.

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