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L’autunno caldo delle crisi aziendali

L’autunno caldo delle crisi aziendali

Il blocco dei licenziamenti fino al 17 agosto e la proroga automatica della cassa integrazione stanno falsando i dati sulla disoccupazione. Ma in 12 mesi sono spariti 613 mila posti e il prossimo 2 gennaio i numeri rischiano di essere peggiori. In bilico ci sono 300 mila lavoratori.


Come quei contadini che quando trovano una bomba nel campo intanto la spostano, Giuseppe Conte s’è convinto di trasferire l’autunno caldo della crisi all’inverno seguente. Con l’unica cosa che sa maneggiare: i decreti urgenti. Il 17 agosto scade il divieto di licenziare per motivi economici, ma il premier lo vuole spostare al 1° gennaio 2021 e mira a prorogare automaticamente la cassa integrazione, che ai livelli attuali costa ai contribuenti 4 miliardi al mese. Sono loro, insieme ai contratti a termine, a pagare i costi di una crisi che il governo giallorosso non sa come affrontare in modo strutturale. E così, per salvare la poltrona di Palazzo Chigi, l’Italia viene tenuta sotto una bolla. Ma un dato non troppo falsato da questo rimedio artificiale dello stop ai licenziamenti c’è ed è quello del tasso di occupazione, che per l’Istat a maggio è sceso al 57,6 per cento (-2,6 per cento in un anno). In 12 mesi, sono spariti 613 mila posti. E il 2 gennaio 2021, i numeri rischiano di essere peggiori.

Dei 144 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico, guidato da Stefano Patuanelli (M5s) in perfetta continuità con Luigi Di Maio, non se n’è chiuso neppure uno e restano in ballo 300 mila lavoratori. Rimangono aperte vertenze incancrenite come Ilva di Taranto, Alitalia, ex Alcoa, Acciaierie di Terni e Whirlpool. Ma tante aziende non dichiarano lo stato di crisi: portano direttamente i libri in tribunale. Solo tra i metalmeccanici, nei prossimi sei mesi rischiano il posto in 80 mila, secondo le previsioni concordi di Federmeccanica e sindacati.

C’era una volta a Torino. In provincia di Torino, 60 mila operai metalmeccanici sono in cassa integrazione. Ovvero uno su due non sta lavorando e di questi, buona parte è coinvolta in crisi di lunga durata. E mentre gli operai Fca di Mirafiori temono la mannaia delle «sinergie» da fusione con i francesi di Psa Peugeot, ci sono crisi aziendali già drammatiche. Come quella della tedesca Mahle, che con i suoi due stabilimenti di La Loggia (Torino) e Saluzzo (Cuneo) produceva pistoni e altri componenti per motori diesel. A ottobre il gruppo di Stoccarda voleva licenziare i 452 dipendenti, ma a fine gennaio il Mise ha concesso la cassa integrazione straordinaria per tutti. Adesso la cassa scade e da febbraio è cominciato il consueto stillicidio di notizie su misteriosi compratori. Un film già visto, che spesso serve a guadagnare tempo e fiaccare i lavoratori.

Come peggiorare una crisi. Se si vuole un esempio lampante di come il blocco dei licenziamenti per decreto non risolva i problemi bisogna andare alla Jabil di Marcianise, nel casertano. Il colosso Usa produce componenti elettronici e a giugno 2019 aveva dichiarato 350 esuberi su 700 dipendenti. Dopo una prima trattativa, 160 persone sono state ricollocate in altre aziende, ma a fine maggio Jabil ha firmato 190 licenziamenti in piena pandemia. Il 3 giugno ha dovuto ritirarli, ma la situazione in fabbrica è tesissima, non si sa che succederà il 17 agosto quando scadrà il blocco; e i livelli di produzione sono scesi a tal punto che gli operai lavorano pochi giorni al mese. Naturalmente, molte lavorazioni sono state spostate all’estero con ottimi motivi tecnici. Così adesso rischiano il posto anche i 350 inizialmente risparmiati. Un vero capolavoro.

Quando non bastano neppure i petrodollari. I proprietari che litigano tra loro e poi il Covid-19 che travolge i consumi. Lo storico marchio di moda Corneliani attraversa una crisi profonda e da un mese lo stabilimento di Mantova è chiuso. I 450 dipendenti, su un totale di 1.050, presidiano l’impianto e hanno perfino organizzato un cinema all’aperto per proiettare 7 minuti (film di Michele Placido su una vertenza operaia in un’azienda tessile) con la presenza di Ottavia Piccolo. Da quattro anni, il 51 per cento del marchio è nelle mani di Investcorp, fondo del Bahrein, con la terza generazione Corneliani in minoranza. Ma i Corneliani hanno fatto causa al fondo della monarchia del Golfo Persico, che non avrebbe rispettato gli impegni sugli investimenti. Si aspettano almeno 10 milioni subito. Altrimenti si rischia la chiusura.

Prendi i soldi e scappa. All’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese la crisi ha anche contorni penali dopo l’arresto di Roberto Ginatta, storico fornitore degli Agnelli calato in Sicilia, quattro anni fa, a fare il pieno di milioni (una ventina) di Invitalia senza combinare nulla. Chissà se l’imprenditore torinese racconterà delle commesse Fca che avrebbe dovuto avere (Doblò elettrico) e non ha avuto. Ma va detto che i 680 dipendenti di Termini Imerese sono in cassa da dieci anni. La Blutec di Ginatta ora è in mano ai commissari del tribunale, che per fortuna ai primi di luglio hanno affittato gli altri due stabilimenti di Atessa (Chieti) e Tito Scalo (Potenza) a un altro fornitore Fca ben più solido, la MA-Cln.

Non di solo 5G. Lo Stato parla solo d’investimenti nella fibra, ma quando si occuperà di ciò che avviene nel settore delle tlc? La domanda è stata posta dai sindacati al ministro Patuanelli a proposito della vertenza Italtel, un nome glorioso dell’industria italiana che ha fornito le centrali telefoniche alla vecchia Sip e che fu privatizzata nel 2000. Exprivia, gruppo pugliese che ora controlla la società, ha deciso di chiedere il concordato in bianco per Italtel e di chiudere lo stabilimento di Settimo Milanese, lasciando a casa 670 persone. Ci sono 160 milioni di debiti con le banche e Unicredit, primo creditore, si è liberato del dossier passando la palla al fondo Pillarstone (che gestisce risanamenti per gli americani di Kkr). Come per molte privatizzazioni, il cerino torna in mano ai contribuenti.

Pugno duro all’olandese. Annunciata a gennaio poco prima della pandemia, la chiusura dello stabilimento Safilo di Martignacco (Udine), nonostante le mobilitazioni è arrivata implacabile il mese scorso. I 250 lavoratori hanno lasciato le loro foto appese sui cancelli della fabbrica di occhiali e ora sono in cassa integrazione straordinaria. La multinazionale olandese ha 140 milioni di debiti (in Borsa ne capitalizza 193) e una settimana fa l’agenzia Moody’s ha ritirato il rating «B3» sul debito a lungo termine. Qui a colpire è una crisi mondiale, con le vendite calate del 21,4 per cento nel primo trimestre e la cancellazione di una commessa da 200 milioni di Dior. E per l’autunno tremano i 18 mila lavoratori del distretto dell’occhiale, tra Bellunese e Friuli.

Quando le banche ci azzeccano. Alle banche creditrici non era piaciuta la vendita, nel 2011, della Merloni di Fabriano all’imprenditore marchigiano Giovanni Porcarelli. Impugnarono la decisione dei commissari, ma nel 2015 la Cassazione diede loro torto. Però le cose non sono andate bene lo stesso. Dopo anni di cassa integrazione, a gennaio la JP Porcarelli ha annunciato 343 licenziamenti su 585 dipendenti. Poi li ha ritirati, su pressione del governo, e ha ottenuto altra cassa fino a metà agosto grazie all’emergenza Covid-19. Per l’ex polo degli elettrodomestici sarà necessario un nuovo piano di rilancio e il semaforo verde del Tribunale di Ancona.

La favola toscana di Giuseppi. Non ha lo stesso appeal di Ilva Taranto, ma alle acciaierie ex Lucchini di Piombino è in gioco il destino di 1.800 lavoratori diretti, quasi 5 mila con l’indotto. Gli indiani di Jindal, da due anni incapaci di investire sull’impianto, hanno appena deciso di affidarsi a Marco Carrai per battere cassa con il governo. L’imprenditore amico di Matteo Renzi chiede l’intervento di Cdp al fianco della proprietà. Ma intanto a Roma si aspetta ancora la presentazione del piano industriale. «Si è garantito un percorso negoziale costruttivo che garantisce i lavoratori e che disegna un nuovo modello di siderurgia ecosostenibile» ha detto Conte in Parlamento. Si rischia uno stop dell’Antitrust, per aiuti di Stato. Ma certo, la «siderurgia ecosostenibile» è davvero perfetta, in bocca a uno che ferma la disoccupazione vietando i licenziamenti.

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