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Il grano e le altre battaglie che stiamo perdendo

Il grano e le altre battaglie che stiamo perdendo

Il bilancio agroalimentare dell’Europa esce a pezzi dal conflitto Russia-Ucraina: non possiamo fare a meno di importare da Mosca, mentre i prezzi sono ormai fuori controllo (anche grazie a vincoli e paletti imposti dalla Ue nell’ambito del Green Deal). E il rischio, più che concreto, è dire addio a milioni di tonnellate di grano e mais.


Effetti collaterali: la fame. Non se ne parla, ma l’agricoltura europea e il mercato mondiale delle «commodities» escono stravolti da un anno di guerra. Sta per riaprirsi il fronte del grano con conseguenze severe. La mancata iniziativa europea per far tacere le armi pesa sui destini degli agricoltori e quindi dei cittadini. Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, alza i tassi per raffreddare i prezzi, ma nel caso di quelli alimentari è come fermare il vento con le mani. L’Europa sta distruggendo la propria risorsa agricola e non ha alternative: importa e paga, mette troppi vincoli a chi coltiva e i prezzi vanno fuori controllo. Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia) è stato chiaro: «La sovranità alimentare non è solo il titolo dei ministeri di Italia e Francia, ma è una questione europea che impatta su come noi intendiamo l’agricoltura».

Il corteo dei trattori che ha assediato Bruxelles la settimana scorsa, le rivolte dei vigneron francesi, la protesta degli allevatori olandesi che verranno espropriati delle loro stalle perché le vacche – sostiene la Ue – inquinano (mentre alla periferia di Amsterdam spuntano i bioreattori dove si produce la carne di laboratorio) sono la spia del disastro alimentare che si sta materializzando.

Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov al G-20 è stato esplicito: «L’Occidente seppellisce spudoratamente l’accordo sul grano, e l’Europa, nonostante cerchi di convincere il mondo del contrario, rende impossibile l’esportazione dei prodotti russi». Lavrov rimette in discussione la Black Sea Grain Initiative: l’iniziativa per il trasporto sicuro di cereali e prodotti alimentari dai porti ucraini, faticosamente costruita dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan sotto l’egida dell’Onu, che a fine luglio 2022 ha sbloccato la spedizione di cereali e olio di semi di girasole (l’Ucraina è il primo produttore mondiale) dai porti di Yuzhny, Chornomorsk e Odessa. Mossa indispensabile per evitare il disastro alimentare soprattutto nel Maghreb e nell’Africa subsahariana. Lo spettro della fame per i bambini di quel continente resta comunque e oggi le tensioni tornano più forti di prima.

Un indizio? Le quotazioni del grano in Italia. Per la prima volta, dieci giorni fa frumento e mais hanno sfondato quota 400 euro a tonnellata (mais 405 euro, grano tenero 441 fino a 435 euro, con un aumento del 17 per cento del frumento e del 23 pe cento del granturco). Il grano duro – materia prima per produrre pasta – non è influenzato dalle tensioni belliche ma resta sui massimi, 511 euro a tonnellata. Come sottolineano i Consorzi agrari d’Italia «importiamo il 64 per cento del grano tenero per pane e biscotti, il 44 di grano duro, il 47 di mais e il 73 per cento di soia; questi ultimi due fondamentali per l’alimentazione animale». A leggere le cifre di Divulga, centro studi tra i più autorevoli in Europa che monitora dal campo alla tavola, l’agricoltura ha pagato il prezzo più alto. Il primo caso è quello dei fertilizzanti. L’Ue li vuole mettere al bando nell’ambito del Farm to Fork (la versione agricola del Green Deal) abbattendone l’uso dell’80 per cento da qui al 2030, ma significa rinunciare alla produzione. Lo hanno dimostrato i trattori prendendo d’assedio Bruxelles.

Paolo De Castro, già ministro agricolo in Italia e capodelegazione Pd in Commissione agricoltura al Parlamento di Strasburgo, sostiene: «L’esecutivo Ue è schizofrenico: da un lato chiede ai nostri agricoltori di produrre più cereali per fare fronte alla crisi alimentare; dall’altro cerca di imporre target di riduzione dei fitofarmaci irrealistici». Il sospetto è che siccome la Russia è il primo produttore al mondo di fertilizzanti da azoto, l’Ue travesta la sua debolezza diplomatica da afflato ecologista sperando siano gli agricoltori a interrompere l’import da Mosca. Perché è vero che il mercato dei fertilizzanti – dopo la crisi ucraina – ha promosso Algeria e Canada a terzo e quarto esportatore, con la Cina che ha aumentato il suo export dell’86 per cento e il Turkmenistan del 170; ma è anche vero che, come spiega Divulga: «La Russia è sempre il principale bacino di approvvigionamento, con oltre 3,5 milioni di tonnellate giunte nell’Ue nei primi 10 mesi 2022. In Italia restano stabili gli acquisti dalla Russia con 159 mila tonnellate di fertilizzanti importati».

Lo stesso vale per grano e cereali. L’accordo del Mar Nero ha sì beneficiato i Paesi africani, ma la maggior quantità è arrivata in Cina ed Europa. La Black Sea Grain Initiative ha garantito lo sblocco di 20 milioni di tonnellate di prodotti (9 milioni di mais, 5,7 milioni di frumento e oltre un milione di olio di semi di girasole tra le merci principali) ma, spiega sempre Divulga, «la Cina da sola ha importato un quinto del totale, 4 milioni di tonnellate di prodotti, di cui il 70 per cento mais. Al secondo posto la Spagna con 3,51 milioni di tonnellate, poi la Turchia con 2,20 milioni in alimenti di cui prevalentemente frumento, con 960 mila tonnellate».

Come dire che Erdogan si è fatto «pagare» la consulenza. Anche l’Italia ha comprato quasi un milione di tonnellate di mais per i suoi allevamenti. E l’allarme per gli Stati africani? Delle due l’una: o era propaganda o la crisi resta perché ai Paesi in via di sviluppo sono toccate le briciole. In Africa sono arrivati 2,3 milioni di tonnellate: Egitto 710 mila tonnellate, Tunisia 481 mila e Libia 410 mila. L’aspetto più rilevante tuttavia è dato dai costi che il conflitto ha fatto esplodere. Se nel punto più alto della crisi (prima dell’accordo del Mar Nero) i fertilizzanti erano diventati proibitivi, le quotazioni attuali restano comunque alte, e lo stesso vale per il gas, con il gasolio agricolo che continua a salire ben oltre.

La Coldiretti, presieduta da Ettore Prandini, stima che le aziende abbiano subìto aumenti del 30 per cento, il che mette fuori gioco almeno 100 mila imprese: «Rischiamo» sottolinea Prandini «di pagare l’onda lunga del caro energia e delle materie prime e di non poter scaricare questi costi sui prezzi finali. I supermercati non accettano ritocchi ai listini per paura di perdere clienti, vediamo però che il 72 per cento degli italiani acquista nei discount, mentre l’83 punta su prodotti in offerta, dice il Censis. Inoltre va chiarito che se salta l’accordo del Mar Nero la crisi diventa durissima: il pericolo è perdere 1,5 milioni di tonnellate di grano, mais e olio di girasole arrivati in Italia quest’anno». Denis Pantini, ricercatore di Nomisma, ha fatto un’indagine per conto di Cia, la Confederazione italiana agricoltori, dimostrando che nonostante un alto valore di produzione (72,4 miliardi con lo 0,4 per cento della terra coltivabile nel mondo) i costi cresciuti del 22 per cento sono ai limiti della sostenibilità.

Ed è quasi tutto effetto della guerra. Che ci ha costretti a vendere meno. Divulga evidenzia che nei primi dieci mesi del 2022 le esportazioni di agroalimentari italiani verso Russia e Ucraina sono calate: -100 milioni di euro. «In Ucraina» scrivono i tecnici «la perdita è del 20 per cento, mentre in Russia intorno all’8». Nonostante le sanzioni, in Russia abbiamo venduto per 500 milioni, poco meno della metà in Ucraina. Mosca ha comprato vini (più 5 per cento) e dolci (più 4). A Kiev abbiamo venduto caffè (più 4 per cento), pasta (10 punti percentuali in più) e verdura fresca (balzo del 70).Ma è poca cosa per rendere di nuovo fertili i campi di guerra.

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