Il conflitto in Ucraina si ripercuoterà sulla produzione della «materia prima» più essenziale, con difficoltà nelle produzioni e fortissima crescita dei prezzi. A pagare pesanti conseguenze i Paesi più fragili, come quelli africani, che Mosca tiene comunque sotto ricatto alimentare. Ma l’effetto domino investirà anche l’Europa.
Deve avere una bassissima opinione di noi contemporanei quel galantuomo di Sandro Pertini, il più amato tra i presidenti della Repubblica, se dall’aldilà vede cosa accade da Roma a Bruxelles. Si stanno svuotando i granai e riempiendo gli arsenali; esattamente l’opposto di quanto predicava lui, che l’orrore della guerra e il coraggio della resistenza li aveva ben conosciuti. Quella della fame in conseguenza del conflitto è questione che ha agitato per qualche tempo le cronache del massacro ucraino, poi non se n’è preoccupato più nessuno. Emmanuel Macron, presidente di turno dell’Unione e forse bis della Francia, però lo ha detto chiaro: «Si rischia la più grave emergenza alimentare dell’ultimo secolo». Dopo la pandemia, la guerra, e come da programma ora c’è la carestia. Che è una bomba da cui non c’è riparo.Vaste zone dell’Africa rischiano la fame – si stima che almeno ulteriori 135 milioni di persone oggi non abbiano più da mangiare – a causa delle distruzioni di Mariupol, della devastazione delle campagne ucraine, del blocco del porto di Odessa e le conseguenze del conflitto sono purtroppo a lento e prolungato rilascio. Non si raccoglierà quest’anno, non si seminerà e almeno per tre anni dal granaio d’Europa non arriverà un chicco, né un seme oleoso. Immaginare un esodo di massa che stringe l’Europa in una morsa di doppia immigrazione non è fantascienza. Da Nord i profughi ucraini, da Sud gli affamati dell’Africa. Bruxelles però non pare curarsene.
La Fao sostiene che i prezzi dei prodotti alimentari hanno raggiunto, in marzo, livelli mai cosi alti (+12,6 per cento rispetto a febbraio 2022 e +33,6 rispetto a marzo 2021) e il prossimo mese si attendono altri rincari di grano, mais e orzo tra l’8 e il 12 per cento. Il segretario delle Nazioni Unite António Guterres, per poco che conti, sostiene: «Stiamo andando incontro a una crisi alimentare globale».
In Medio Oriente i prezzi sono cresciuti del 50 per cento. Circa metà del grano che la Fao acquista per i suoi programmi alimentari non si trova. Dovrebbe arrivare dall’Ucraina, ma con i porti bloccati non c’è speranza. Stando ai dati dell’International Grain Council, le riserve sono ormai al minimo storico: sotto le 600 mila tonnellate.
L’Egitto importa per il 70 per cento del proprio fabbisogno grano russo, in Africa ci sono 25 Stati totalmente dipendenti da Kiev e Mosca, l’area più calda è quella del Maghreb. Le primavere arabe del 2011 scoppiarono proprio per il rincaro del prezzo del pane, oggi le condizioni sono ancora più gravi. Libia, Tunisia, Marocco e Libano sono sull’orlo della carestia e dunque della rivolta. In Tunisia il prezzo del pane è bloccato con sempre maggiore fatica, in Marocco non si trova più semola. L’Algeria voleva abolire il calmiere dei prezzi finanziato col bilancio pubblico, ma ha dovuto rinunciare per evitare disordini. A Tizi Ouzou e Bejaïa, in Cabilia (regione nell’est del Paese), le riserve di farina sono state azzerate. Nella città libanese di Sidone si sono fermati tutti i panifici, nei giorni scorsi. Yemen e Pakistan hanno fame di grano e su queste nazioni ha messo il cappello la Cina. Avendo comprato in anticipo il 60 per cento del grano russo, Pechino lo usa come merce di scambio: farina contro consenso.
Mosca da sola produce il 30 per cento del grano del mondo, l’Ucraina un altro 20. Dai campi russi si ricava un quarto dell’orzo e un terzo del mais, da quelli ucraini oltre il 50 per cento di semi di girasole e il 30 per cento di mais. Kiev vale il 60 per cento dell’esportazione dell’olio di semi di girasole. Con il conflitto ucraino si è creato un enorme «buco» nello stomaco del mondo. Che soffre la fame e rischia di andare in fiamme. La Russia – supportata dalla Cina – ha inaugurato dopo la rude diplomazia del gas quella ancora più stringente del grano.
Peraltro anche Joe Biden non va per il sottile; sta cercando di vendere agli europei quanto più gas liquefatto possibile, a un prezzo del 50 per cento in più di quello di Mosca – strategia adottata dall’allora presidente Barack Obama e poi perfezionata da Donald Trump – e prova a venderci anche il grano a stelle strisce ben saturo di pesticidi e raccattato in giro per il continente americano da nord a sud. Prima causa della crescita record nei prezzi.
La scarsità di raccolti di «duro» in Canada e le proteste dei camionisti avevano già fatto rialzare le quotazioni. La chiusura del porto di Churchill, nei pressi di Manitoba, dirotta i raccolti canadesi negli Usa per l’imbarco e questo è un elemento di tensione che durerà almeno per altri due anni. Ne ha approfittato la Francia, che ha subito «riquotato» il suo grano facendo lievitare il prezzo della semola fornita soprattutto ad Algeria e Marocco. Attorno alla diplomazia della spiga si sta muovendo una speculazione fortissima e fanno sorridere i proclami europei all’unità dell’Ue. La guerra è uno dei motivi di incremento dei prezzi, ma non l’unica causa.
Non si capisce perché l’Europa non sia intervenuta a bloccare il governo ungherese quando ha deciso di limitare le sue esportazioni ai soli contratti già stipulati. L’Ungheria è il primo fornitore dell’Italia (ci compriamo un terzo del frumento) appena è scoppiata la crisi ucraina ha chiuso i silos. Lo stesso ha fatto Bucarest, ma da Bruxelles nessuno ha battuto ciglio nonostante Francia, Ungheria e Romania attingano ai piene mani dai contributi agricoli comunitari.
Il nostro ministro agricolo Stefano Patuanelli ha provato a farsi sentire, ma il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans con delega all’ambiente ha risposto che l’Italia sarebbe stata compensata con gli aiuti alle imprese e lo sblocco dei terreni. Portiamo a casa 48 milioni di euro e 200 mila ettari potenziali di coltivazione. Se ne parla comunque l’anno prossimo e sono una goccia nel mare. Bruxelles ha un retropensiero: perché allargare la produzione europea se veniva comodo dire che l’impennata dei prezzi è tutta colpa di Putin? La Russia usa il grano esattamente come il gas: apre e chiude i rubinetti a seconda dei risultati diplomatici. Il primo è sconfiggere Washington sul terreno alimentare. La saldatura Mosca-Pechino che si sta realizzando sull’energia e sui mercati finanziari nel tentativo di sostituire il dollaro come moneta di riferimento si allarga al mercato delle commodity.
Il Cremlino ha tre obiettivi che sfuggono a chi guarda il dito dell’invasione ucraina e non la luna della complessiva offensiva anti-occidentale: allargare l’appoggio diplomatico usando la farina; controllare il mercato dei cereali mettendo gli Usa in posizione subordinata; consolidare l’alleanza con la Cina che ha una fame bulimica. Obiettivi che Putin sta cogliendo uno a uno e usa gli Stati poveri come scudi umani; conta sulla loro rabbia per fame al fine di condizionare il quadro internazionale.
L’Europa invece continua a specchiarsi nelle sue buone intenzioni. La Commissione presieduta da Ursula von der Leyen fa sapere: «L’Ue vuole allargare del 30 per cento le sue esportazioni di grano per contrastare la crisi innescata dal conflitto ucraino. Dobbiamo aumentare la produzione anche a costo di sacrificare le aree ecologiche individuate con il piano Farm to Fork e il programma per la Biodiversità 2030. Contiamo sul minor consumo di carne e sulla peste suina che decimerà gli allevamenti per avere un risparmio nel consumo di cereali e di mais soprattutto. Un altro risparmio dell’8 per cento si avrà da minore utilizzo di cereali per biocarburante. Così dovremmo recuperare produzione e ridurre del 42 per cento l’importazione di cereali per attutire l’impatto sui mercati mondiali della mancata produzione ucraina».
Per vincere la battaglia di Kiev l’Ue risponde a una crisi globale immaginando un dirigismo economico e rispolvera la tessera annonaria con un piano che pare scritto da chi non ha mai neppure coltivato una patata. Non uno degli obiettivi annunciati è perseguibile. Rimettendo a coltura solo per un anno i terreni fermi per il cosiddetto «set aside» imposto dalla concezione dell’agricoltura nemica dell’ambiente che ormai domina a Bruxelles non si risolve nulla. Non quest’anno, visto che il grano si semina a ottobre. Il beneficio semmai ci sarebbe nel 2023, considerando che un campo rimesso a coltura produce mediamente il 30 per cento in meno. I fertilizzanti, senza i quali non si coltiva, li produce solo la Russia. Questa oggi è in grado di stabilire i prezzi dei cereali e può, volendo, fare «dumping» vanificando le intenzioni di export di Bruxelles. Il principale piano di Mosca è infatti sottrarre a Chicago – ovvero la più grande borsa merci del mondo – la titolarità dei prezzi. Del pari Mosca, che ha superato Washington in quantità di cereali prodotti, con Pechino sta dando l’assalto alle quattro sorelle dei cereali: Cargill (115 miliardi di dollari di fatturato), Adm-Archer (285 miliardi), Bunge Limited (50 miliardi) tutte e tre americane, e il francese Louis Dreyfus Group (38 miliardi) che determinano il mercato con le multinazionali dell’alimentazione. Se i prezzi salgono forse conviene dare uno sguardo anche a questo trust. Lo scontro sul mercato delle sementi tra Bayer, ChemCina e Dow Chemical è un altro capitolo della guerra del grano. E la Russia che detiene i fertilizzanti è per ChemCina un partner cruciale.
Allo stato dei fatti, però, l’obiettivo più importante per Mosca è diplomatico. Ne ha avuto una prova Mario Draghi andando a stipulare l’accordo sul gas ad Algeri, nei giorni scorsi. L’Algeria, avendo perso il 38 per cento dei suoi raccolti, importa 5 milioni di tonnellate di grano dalla Russia e ciò ha causato il voto contro l’espulsione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani.
Altre nazioni dove l’Italia cerca risorse energetiche dipendono dai cerali di Mosca. La Repubblica democratica del Congo importa dalla Russia il 50 per cento del grano di cui ha bisogno (oltre la metà del suo consumo), l’Angola il 60 per cento perché solo un decimo dei suoi 50 milioni di ettari è coltivato. Il «controllo» per via alimentare di Mosca si è palesato anche all’Onu: 17 Paesi africani si sono astenuti sulle mozioni di condanna di Putin per l’invasione dell’Ucraina. Il mondo sarà pure infame perché molti si mostrano insensibili alla guerra, ma a fare premio c’è sempre il «comma» Conte Ugolino dantesco: più dell’onor poté il digiuno.n
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