Il conflitto in Ucraina non è una guerra assimilabile a quelle che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni: non è un guerra civile; non è una guerra terroristica; non è mossa da o verso Stati falliti e precari; ma è una guerra nel cuore dell’Europa tra due Paesi sovrani. O, meglio, è un’invasione russa motivata da obiettivi imperialistici, di potenza e di sicurezza. Il luogo della guerra, alle soglie dei confini dell’Unione europea, ed il tempo, dopo una lunga pandemia e impetuosi cambiamenti economici, sociali e tecnologici rende lo spettro del suo impatto particolarmente ampio anche se oggi non ne conosciamo l’esito. L’importante è avere consapevolezza del cambiamento che la guerra impone. Una crisi economica e sociale derivante dall’applicazione dei vecchi schemi può portare il sistema politico verso direzioni ignote e inaspettate nell’arco di poco tempo. Vale per l’Italia e per l’Unione europea.
Il paradigma economico è mutato in modo inesorabile negli ultimi due anni, consumando definitivamente un assetto che si era stabilito nel corso degli anni Novanta e che ha iniziato il proprio processo di deterioramento già a partire dalla crisi economica del 2008. In tutto l’occidente politiche espansive dei governi e delle banche centrali sono tornate alla ribalta. Una tendenza iniziata con la risposta americana, e obamiana, alla crisi del 2008 e arrivata in Europa soltanto con il whatever it takes dell’allora governatore centrale della Banca Centrale Europea Mario Draghi. La pandemia ha accelerato questo processo di svolta, in Europa con il varo del PNRR e la sospensione del patto di stabilità e negli Stati Uniti con un massiccio piano di stimoli fiscali voluto dall’amministrazione Biden. Questo cambio di paradigma sfrutta la necessità di rispondere alla pandemia e alle sue chiusure, ma s’inserisce anche in un contesto mutato della politica internazionale. Il mondo è entrato lentamente e di soppiatto in una nuova guerra fredda. Politiche protezioniste americane inaugurate da Obama sono proseguite con maggior vigore durante la travagliata presidenza di Donald Trump. Esse sono dovute, in particolare modo, alla necessità di fronteggiare lo sviluppo della potenza economica e tecnologica cinese da un lato e a quella di fornire una risposta alle pressioni interne derivanti dalla de-industrializzazione. Tentativi di reshoring, cioè di rimpatrio della produzione sul suolo americano, sono oramai in corso da un quinquennio. Su questo c’è una continuità evidente tra amministrazioni di colore diverse. Ad esse si accompagnano un maggior controllo degli investimenti esteri sul suolo americano, politiche di protezione dell’arsenale tecnologico e digitale della prima potenza occidentale. Questa postura anti-cinese degli Stati Uniti ha prodotto riflessi anche nel campo europeo, basti pensare anche qui al controllo degli investimenti con le golden rule e al controllo sull’approvvigionamento di tecnologie e sistemi di difesa. Dunque, lo stato in tutto l’Occidente si è mostrato maggiormente interventista in tre aree: monetaria ed economica per rilanciare la crescita; sicurezza, per controllare la scalata dell’influenza cinese; welfare, al fine di ammorbidire un’opinione pubblica sfiancata dalla stagnazione socio-economica e sedotta negli ultimi anni dalle sirene populiste, anti-establishment e nazionaliste. In Europa ciò ha determinato un rafforzamento delle istituzioni dell’Unione europea che hanno guadagnato una maggiore centralizzazione sul piano economico e delle politiche pubbliche. Bruxelles pianifica e controlla di più rispetto al passato. Il pacchetto del Next Generation EU nasce per necessità economica e sociale di fronte allo shock pandemico, ma rappresenta anche l’opportunità per un balzo in avanti a-simmetrico, poiché non politico-costituzionale ma economico-funzionale, di un processo di integrazione che si era arenato negli ultimi anni. In questa dinamica si è innestato un paradosso: l’establishment europeo si è appropriato di soluzioni che fino a qualche anno fa appartenevano a partiti di protesta ed intellettuali fuori dal mainstream oppure a correnti minoritarie delle grandi formazioni di governo centriste. Un cambiamento di rotta che ha permesso ai partiti moderati, spesso rinnovati nelle leadership e nella forma, basti pensare a Macron o ai verdi tedeschi, di mantenere l’ordine e piegare le pulsioni anti-europeiste. Oggi dunque i paesi europei sono maggiormente interdipendenti, ma all’interno di una cornice economica e culturale differente. Anche se i due poli opposti faticano ad ammetterlo si è di fatto giunti ad una integrazione tra europeismo e sovranismo, soprattutto nei Paesi dell’eurozona. Ciò ha delle implicazioni anche su altri fronti globali, come ad esempio quello della lotta al cambiamento climatico. E’ oramai chiaro che la transizione ecologica non potrà procedere ai ritmi immaginati dai governi occidentali, ma che servirà una maggiore gradualità nel disegnare e attuare politiche. Se le energie pulite continueranno ad essere finanziate, forme di pianificazione e regolazione troppo aggressive sembrano destinate ad essere riposte nel cassetto. I rischi di approvvigionamento, la crisi energetica, l’inflazione e ora la guerra costringono l’ideologia ambientalista ad un redde rationem con la realtà presente. D’altronde senza industria – che può essere distrutta da politiche dirigiste e di pianificazione green – non c’è futuro né in Europa né in Italia.
In questo contesto il nostro paese è chiamato ad adeguarsi rapidamente. Sui tavoli europei ciò significa per il governo Draghi battersi per una politica espansiva dei bilanci, che può anche voler dire accettare un contro bilanciamento della spesa attraverso l’innalzamento dei tassi d’interesse per evitare l’inflazione, al fine di promuovere investimenti in infrastrutture, formazione e difesa. Deve essere chiaro che il PNRR non è più sufficiente perché eroso dall’inflazione e dagli effetti delle sanzioni. Il governo dovrà evitare l’ennesima politica clientelare dei bonus ed evitare di impiccarsi a forzature divisive e austere come quella del catasto. Il sistema deve andare in direzione espansiva e ciò può significare – oltre investimenti specifici – anche una riduzione del carico fiscale per facilitare il reinvestimento del risparmio e del surplus. Si pensi soprattutto alla possibilità per le industrie di reinvestire senza pesi fiscali gli utili generati dalla ripresa post-pandemica. La compattezza politica è essenziale per navigare in una crisi esogena e incontrollabile. L’importante è avere consapevolezza del cambiamento che la guerra impone. Una crisi economica e sociale derivante dall’applicazione dei vecchi schemi può portare il sistema politico verso direzioni ignote e inaspettate nell’arco di poco tempo. Vale per l’Italia e per l’Unione europea.
