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Il ricatto verde nel Recovery Fund

Il ricatto verde nel Recovery Fund

All’interno delle misure di rilancio continentale, la Commissione europea (guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen) ha varato il Green New Deal: il piano ambientale – con tanto di obbligazioni ad hoc – che vale 277 miliardi dei 750 stanziati per superare la crisi post-Covid. Ancora una volta, a guadagnarci è la Germania, forte emittente di questi bond. Non solo: alzare le tasse sull’energia o imporre scelte drastiche, come il sistema Nutri-Score, finirà per produrre risultati discutibili e accenderà i conflitti sociali.


Trent’anni dopo la riunificazione delle due Germanie i tedeschi ci riprovano a scaricare i loro costi sull’Europa. Stavolta con il ricatto verde inserito nel Recovery Fund: è il Green New Deal. Significa prendere il 37 per cento del famosi 750 miliardi che l’Europa intera sborserà per superare la crisi da virus cinese a destinarli a conversione verde. Inventando gli eurobond green, la sola mutualità che ai tedeschi piace, perché con quel debito condiviso possono risolvere i problemi delle loro fabbriche. Vanno dicendo in giro da Bruxelles – e lo hanno fatto anche al recentissimo G20 finanziario presieduto dal nostro ministro dell’Economia Daniele Franco – che la finanza ecocompatibile è quella del futuro. La parola magica è appunto «green bond» e per avere il quadro basti sapere che la Deutsche Bank – piena zeppa di derivati che la fanno barcollare a ogni minuto – è la più forte emittente privata di queste obbligazioni.

Pure l’Italia ha emesso un Btp verde collegato al miglioramento infrastrutturale, ma che l’ecologicamente corretto possa nascondere l’ennesima bolla speculativa lo dicono i semplici numeri: al momento nel mondo ci sono emissioni in questo tipo di bond (tra obbligazioni private e titoli) per 350 miliardi di dollari.

È dunque tutta «natura quel che riluce?». A denunciarlo sono proprio i seguaci di Greta Thunberg. Sul loro sito i ragazzi di Fridays for Future hanno scritto: «Inserire la parola “green” nel Recovery Plan non significa agire per il clima. Non ci importa quante volte la ripetete. Ciò che ci importa è vedere degli obiettivi chiari, e che vengano raggiunti».

Ma Ursula von der Layen, la presidente tedesca della Commissione europea, ha ottime ragioni politiche, economiche e ideologiche per alimentare la retorica ambientalista. Il Green Deal è stato pensato per consentire a Berlino di ristrutturare a spese degli altri il suo primo comparto industriale, l’automobile, e per chiudere – possibilmente guadagnandoci – le centrali a carbone da cui la Germania ricava ancora il 30 per cento della propria energia.

Ma al debutto, nel 2019, è stato un flop. Fu dopo lo scandalo del Dieselgate che la Cdu di Angela Merkel immaginò un’offensiva verde. Serviva per continuare a esercitare l’egemonia verso i Paesi del Nord, dove i Verdi sono partiti forti, e per arginare in patria il partito ecologista di Robert Habeck e Annalena Baerbock, che si avvia a conquistare il Bundestag.

Così von der Leyen, senza alcuna analisi economica, ha stabilito che dal 2050 l’Europa sarà a emissioni zero e dal 2030 non si potranno più vendere auto a combustibile fossile. Una scelta progressista, raccontano. Sarebbe interessante spiegare che nella cultura tedesca non è sempre stato così. Hermann Göring – fedele e feroce braccio destro di Adolf Hitler – era un convinto animalista. Si potevano sterminare milioni di ebrei nei lager, ma gli animali no. Ernst Moritz Arndt, il teorizzatore del pensiero ecologista contemporaneo, fu un esponente del più violento e xenofobo nazionalismo. Ernst Haeckel, che nel 1867 coniò il termine «ecologia», credeva nella superiorità razziale nordica. Aderì alla Thule, organizzazione segreta che fu la culla del movimento nazista. No, non tutto quello che è «natura» riluce.

Si capisce allora perché il capoeconomista del settore ricerche di Deutsche Bank, Eric Heymann, abbia detto chiaro e tondo che per far decollare il Green New Deal occorre «una massiccia dose di ecodittatura». Anche perché non una cifra del piano verde europeo funziona. C’è scritto che si troveranno 750 mila posti di lavoro nell’economia circolare, che avremo 150 miliardi d’investimenti (in 10 anni, cioè 15 all’anno diviso 27 Paesi fa 500 milioni all’anno!). Perciò, una volta concepito, al Recovery Fund è stato aggiunto come cardine il Green New Deal.

Così, il 37 per cento dei fondi previsti dal Next Generation Ue sono da spendere esclusivamente in politiche ambientali: 277 miliardi su 750. I soldi del Recovery per ora tuttavia non ci sono. Ci sono però le sanzioni e la Von der Leyen ha chiesto al Parlamento europeo una legge che impedisca ai parlamenti nazionali di votare provvedimenti in difformità al Green New Deal.

Ha dunque ragione Heymann? «Il Green Deal europeo e il suo obiettivo di neutralità climatica entro il 2050 minaccia una mega-crisi europea, portando a una notevole perdita di benessere e posti di lavoro. Non funzionerà senza un certo grado di eco-dittatura. Attorno alla transizione ecologica c’è un dibattito disonesto. Dovreste avvertire gli 830 mila occupati tedeschi nell’industria dell’auto che perderanno il posto. E ipotizzare di sostituirli con chi dovrà smaltire le batterie inquinanti delle auto elettriche è pura demagogia. A livello dell’Ue, ci saranno grandi conflitti. La politica climatica si presenta sotto forma di tasse e tariffe più elevate sull’energia, che rendono il riscaldamento e la mobilità più costosi. Cosa dovremmo fare se i proprietari di immobili non vogliono trasformare le loro case in edifici a emissioni zero? Se non hanno i mezzi finanziari per farlo? Per imporre queste scelte saremo costretti allora a instaurare una eco-dittatura».

Lo pensano anche Yanis Varoufakis, l’ex ministro del Tesoro greco, e David Adler, economista americano di estrema sinistra: «Sarebbe meglio avere un obiettivo meno ambizioso, ma più onesto per la spesa verde e consentire variazioni tra i Paesi. L’Italia, per esempio, ha un fabbisogno molto maggiore di spesa per le infrastrutture di trasporto».

Quindi, c’è chi dice no. Gli agricoltori francesi che hanno cosparso di letame le città. I nostri, per ora, si limitano ai comunicati stampa. Nel Green New Deal c’è anche il programma Farm to Fork, che impone all’agricoltura di azzerare il suo impatto ambientale: via allevamenti e diserbanti. A queste condizioni, dicono gli agricoltori, è impossibile coltivare ai prezzi che i consumatori sono disposti a pagare; di conseguenza importeremo prodotti coltivati senza sottostare alle regole ecologiste dell’Europa. Che peraltro espelle la chimica dai campi, ma la ripropone in tavola. Promuovendo il «Nutri-score», il sistema di etichettatura a semaforo che sdogana gli alimenti ricchi di sostanze di sintesi. Ecco che Von der Leyen cerca di lanciare un «piano verde» mondiale per evitare di essere il vaso di coccio ecologista tra i vasi di ferro che inquinano, ma producono a costi bassi.

Ha scoperto che il greenwashing piace; così come, però, di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno.

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