L’estate conferma lo sviluppo di un rapporto sempre stretto tra finanza e politica, ma anche le difficoltà italiane a tenere sotto controllo questo connubio. Si sta svolgendo la partita per il futuro di Borsa italiana, il gestore del mercato finanziario, oggi controllata dalla London stock exchange. All’orizzonte i francesi e il timore della perdita di autonomia finanziaria.
L’estate conferma lo sviluppo, seppur sotto traccia, di un rapporto sempre più stretto tra finanza e politica, ma anche le difficoltà italiane a tenere sotto controllo questo connubio. Sotto il sole di agosto, infatti, si sta svolgendo la partita per il futuro di Borsa italiana, il gestore del mercato finanziario, oggi controllata dalla London stock exchange. Lse necessita di cedere Borsa italiana sia di fare cassa per ripianare la propria situazione debitoria sia per questioni di governance e soprattutto di anti-trust europeo. Infatti, Lse si troverebbe, una volta finalizzata l’acquisizione del provider di servizi finanziari Refinitiv, in posizione di monopolista sulle piattaforme di interscambio delle obbligazioni in Europa, attraverso il controllo di Mts, che fa parte proprio di Borsa Italiana, e Tradeweb. La cessione di Milano risolverebbe le grane legali con l’autorità europea per la concorrenza e aiuterebbe i bilanci societari. Per questi motivi, Londra deve vendere. In pole position per la corsa al rilevamento del gestore c’è il consorzio franco-belga Euronext, che gestisce le Borse di Amsterdam, Bruxelles e Parigi, ed è il principale mercato finanziario pan-europeo. Che Euronext sia da diverso tempo interessata a Milano è notizia di vecchia data, sia per gli interessi strategici francesi che mirano al controllo della finanza italiana sia per il proprio sviluppo di mercato su scala continentale. Parte del governo italiano, soprattutto i partiti di centro sinistra, vede di buon occhio una fusione paritetica tra Borsa ed Euronext, sulla falsariga dello schema Psa-Fca (50-50). Più diffidente verso questo schema è invece il Movimento 5 Stelle, che preferirebbe una soluzione maggiormente “nazionalizzata”. Da qui, l’idea di impiegare Cdp, come garanzia di supervisione di un organo dello Stato italiano su Piazza Affari, in una partnership con Euronext per la gestione di Borsa Italiana.
Eppure la partita non è soltanto finanziaria, ma politica. Più volte negli ultimi mesi, il Comitato per la sicurezza della Repubblica ha sollevato timori su possibili scalate ostili ai nostri asset finanziari che minerebbero l’indipendenza dell’Italia rispetto ad altri paesi europei (la Francia in particolare). Il che, vista la sensibilità delle migliaia di transazioni che ogni giorno passano per Palazzo Mezzanotte, pone un problema sia di gestione delle informazioni che delle strutture. Nel caso di una joint-venture per il controllo di Borsa italiana, una prevalenza di Euronext nell’azionariato potrebbe infatti determinare un trasferimento delle informazioni, delle procedure e del management fuori dall’Italia per centralizzare l’intera gestione a Parigi, con relativo indebolimento del nostro sistema finanziario. Tra le preoccupazioni di un passaggio di Borsa Italiana ad Euronext c’è anche il futuro di Aim, il mercato delle piccole-medie imprese italiane, che si ritroverebbe a funzionare su una piattaforma gestita e controllata dal principale competitor europeo. Tuttavia, essendo Borsa Italiana già nelle mani di una società straniera, non sembrerebbe possibile, come evocato da alcuni analisti, un utilizzo della Golden power su di essa. Da qui il coinvolgimento dell’oramai tentacolare Cdp ed il rafforzamento dei poteri della Consob, rispetto all’acquisizione del gestore del mercato finanziario, disegnati nel dl Agosto.
La Consob potrà opporsi all’acquisto di partecipazioni rilevanti nelle società di gestione del mercato, come Borsa Italiana e Mts, qualora mettano a repentaglio la “gestione sana e prudente del mercato, valutando tra l’altro la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione”. Il decreto indica nel 10%, 20%, 30% o 50% le soglie dei diritti di voto o del capitale al raggiungimento delle quali l’acquisto della quota deve essere notificata all’autorità di vigilanza. Allo stato attuale, non sembra esserci alternativa al fatto che Borsa Italiana possa passare di mano straniera in mano straniera. Anche perché la sua capitalizzazione, pari a soltanto circa il 30-40% del Pil, e la composizione del listino (diviso tra poche grandi società molto distanti nella capitalizzazione dalle altre, considerate troppo piccole) non la rende particolarmente appetibile. Bisognerà capire però, e su questo vedremo come si porranno il governo ed il Ministero dell’Economia, con quale combinazione si arriverà alla probabile fusione con Euronext. Una maggioranza di Cdp o una parità nel controllo potrebbero essere una garanzia di tutela sufficiente anche in termini strategici e di sicurezza nazionale; al contrario, una prevalenza del consorzio francese, lascerebbe spazio a dubbi ed interrogativi sulla capacità della finanza italiana di rendersi indipendente dalle mire francesi sui suoi gangli vitali. Poteva esserci, in teoria, un’altra soluzione? Forse sì, ma avrebbe presupposto una forte regia e volontà politica, capace magari di mettere assieme un pool di banche italiane per rilevare il gestore della Borsa coinvolgendo Wall Street. Ma questo avrebbe forse significato chiedere troppo ad un governo tra i meno inclini degli ultimi decenni a guardare oltre oceano e ad intrecciare partnership atlantiche. Per questo resta molto probabile un passaggio di Borsa Italiana dalle mani inglesi a quelle francese, seppure con una “quota di marcatura” della nostra Cassa depositi e prestiti. Un assetto che non risolve i dubbi sulla capacità dell’Italia di proteggere i propri asset finanziari dalle strategie di espansione degli altri paesi.
