La caduta del Prodotto interno lordo nel 2020 avrà un impatto negativo anche sugli assegni previdenziali futuri
degli italiani. Che, come calcolato in esclusiva per Panorama, potrebbero subire una perdita anche superiore al 6%.
La crisi economica provocata dal coronavirus inciderà sulle pensioni del futuro: chi si ritirerà dal lavoro nei prossimi anni potrebbe ricevere per il resto della sua vita un assegno tagliato anche del 6%. È la conseguenza del sistema di calcolo dell’ammontare dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, il cosiddetto montante, che serve per stabilire il valore della pensione iniziale: come pochi sanno, questo calcolo non è legato all’andamento dell’inflazione, ma a quello del Prodotto interno lordo. E poiché quest’anno ci si attende una caduta del Pil del 9-10%, di conseguenza ci sarà una riduzione, seppure mitigata, delle prossime pensioni.
Ma quanto forte potrebbe essere questo calo? E a quali condizioni? Per scoprirlo Panorama si è rivolto a Silvin Pashaj, presidente di Epheso, società che fornisce calcoli previdenziali a banche, assicurazioni, fondi pensioni e che vanta un’esperienza trentennale in campo previdenziale. «La riforma pensionistica del 1995, chiamata anche riforma Dini, si fonda sul metodo di calcolo contributivo» premette Pashaj. «In questo calcolo la misura della pensione è data dalla somma di tutti i contributi versati nella vita lavorativa, rivalutati in proporzione alla crescita del Pil, che viene detta montante contributivo. Ovviamente per trasformare il montante in un assegno mensile, esso va diviso per il numero di mesi dati dalla speranza di vita media all’età effettiva di pensionamento. Poi, da quando il primo assegno viene versato all’interessato, la pensione è rivalutata in base all’inflazione».
L’obiettivo alla base del sistema introdotto dal governo Dini, che aggancia il calcolo della pensione iniziale all’andamento dell’economia, è dare maggiore stabilità alle finanze pubbliche: se il Pil cresce, aumentano i contributi e l’Inps, guidato ora da Pasquale Tridico, può sopportare una spesa previdenziale più alta. Se il Pil arranca, entrano meno soldi nelle casse dell’Inps che in compenso paga pensioni più leggere. Il che però si traduce in un danno per i lavoratori i quali, come vedremo, si ritrovano con meno potere d’acquisto. Soprattutto quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996 e incasseranno l’intero assegno basato esclusivamente sui contributi versati e non, come oggi, con una fetta derivante ancora dal sistema retributivo, più favorevole.
Va comunque riconosciuto che, proprio per smussare il legame tra Pil e pensioni, i singoli contributi versati nel corso della vita lavorativa vengono moltiplicati per un indice, calcolato dall’Istat, che si basa non su un solo anno ma sulla media del Prodotto interno lordo dei cinque anni precedenti. Dal 2008, il meccanismo è stato corretto stabilendo che, in caso di andamento del Pil negativo, i contributi versati non diminuiscono: semplicemente non si rivalutano.
Ma nonostante questi correttivi, il sistema non protegge il potere d’acquisto dei lavoratori, i contributi non vengono cioè rivalutati abbastanza per tenere il passo con l’inflazione. Come rivelano i calcoli effettuati da Epheso per Panorama, il danno è evidente dopo il 2008, quando le due crisi successive, Lehman ed euro, hanno colpito duramente l’economia italiana. Il risultato è che dal 2010 al 2020 i contributi previdenziali hanno perso circa il 5 per cento di valore reale. Mentre dal 1996 si può stimare che i contributi versati abbiano ottenuto una rivalutazione reale che copre solo un quarto dell’inflazione. In altre parole, il «capitale» accumulato negli anni da cui il lavoratore estrae la «rendita», cioè la pensione, si è svalutato.
Vediamo ora quale potrebbe essere l’effetto-Covid sulle pensioni del futuro. Pashaj ha preso in esame tre ipotetici lavoratori nati rispettivamente nel 1956, nel 1960 e nel 1965 i quali andranno in pensione con 40 anni di anzianità nel 2023, nel 2028 e nel 2033. Guadagnano attualmente 30 mila euro lordi all’anno e la retribuzione reale negli anni cresce stabilmente dell’1 per cento. Epheso simula poi che questi lavoratori affrontino tre differenti scenari macroeconomici.
Il primo, puramente ipotetico, immagina che nel 2020 non ci sia stata la crisi e che il Pil continui a crescere negli anni dello 0,7 per cento, all’incirca la media ponderata di lungo periodo dal 1996 a oggi. Il lavoratore che andrà in pensione nel 2023 percepirà una pensione di 21.914 euro annui, quello che smetterà di lavorare nel 2028 prenderà 22.480 euro, e infine quello che si ritirerà nel 2033 incasserà 22.910 euro.
Il secondo scenario ipotizza che nel 2020 il Pil fletta del 10 per cento ma che nel 2021 e 2022 ci sia una ripresa a «V», con un rimbalzo del 4% annuo seguito da una crescita dello 0,7%. In questo caso i tre lavoratori andrebbero in pensione rispettivamente con 21.433 euro, 21.603 euro e con 22.010 euro. Rispetto allo scenario senza crisi, i tre neo-pensionati si troverebbero con un assegno un po’ più leggero: il più anziano, che smetterà di lavorare nel 2023, perderà circa il 2%, mentre il più giovane, che andrà a riposo nel 2033, subirà un taglio di quasi il 4%.
La situazione peggiora nel caso si avverasse il terzo scenario, con una curva del Pil a «L»: cioè dopo la contrazione del 10% nel 2020, negli anni successivi il Pil non rimbalza e cresce dello 0,7%, senza il recupero quasi immediato previsto nel secondo scenario. A queste condizioni i tre lavoratori andrebbero in pensione rispettivamente con 21.433 euro, 20.982 euro e 21.372 euro. Mentre per il più anziano non cambia nulla, quello nato nel 1960 perderebbe il 6,6% e il più giovane vedrebbe il suo assegno ridursi del 6,7% rispetto allo scenario senza crisi. Sembrano variazioni piccole, ma bisogna ricordare che queste sforbiciate si riflettono sull’intera vita residua dei pensionati, il cui assegno si adegua per di più solo parzialmente all’inflazione. Dunque, doppia fregatura.
«Ovviamente nel calcolo previdenziale intervengono una molteplicità di fattori sia di natura normativa sia relativi alla situazione individuale, che possono avere rilevanza ben più ampia rispetto alla rivalutazione dei montanti contributivi» precisa Pashaj. «Detto questo, i tre profili previdenziali ricadono sempre nel calcolo misto retributivo-contributivo e anche in presenza di un calcolo misto, la quota contributiva è di peso specifico sufficiente per mostrare in tutta evidenza gli impatti dovuti all’andamento negativo del Pil».
Morale: non solo le pensioni degli italiani sono tassate pesantemente (più che in altri Paesi come la Germania); non solo non vengono adeguate interamente al costo della vita. Ma pure i contributi versati perdono potere d’acquisto: e chi darebbe i propri soldi a un fondo pensione che non fa crescere il capitale in termini reali? Nessuno. Forse sarebbe ora di rivedere il sistema: «Sì» ammette Pashaj «la necessità di una correzione diverrà probabilmente più pressante».
