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Sanzioni a perdere

Sanzioni a perdere

Le ritorsioni in risposta all’invasione dell’Ucraina stanno colpendo soprattutto la popolazione, non il cuore del potere russo. Le divisioni a Bruxelles impediscono un compatto fronte continentale, al di là dei proclami. E il Cremlino, sicuro che l’Occidente non potrà fare a meno del suo gas e della sua energia, rilancia il rublo. Nello stallo dei negoziati per la pace, c’è una certezza: l’economia europea, in particolare quella italiana, pagherà il prezzo più alto.

Eppur non muore! Sono perplessi dalle parti di Bruxelles; arrivati ormai al quinto pacchetto di sanzioni constatano che non solo Vladimir Putin continua la guerra in Ucraina tra massacri e bombardamenti, ma incassa un sacco di quattrini e l’economia russa cresce come il consenso allo Zar. Un dato è sufficiente: a febbraio l’Italia ha pagato alla Russia 2 miliardi in più per comprare il gas con un aumento del 252 per cento e un assegno mensile di 2,8 miliardi di euro. Le proiezioni sulle tariffe di gas e petrolio, sul grano che la Russia sta vendendo a tutti tranne che ai «Paesi ostili»‚ ai quali ha dichiarato una guerra del cibo, fanno dire che Mosca a fine anno incasserà 450 miliardi in più. Putin ha già recuperato tutte le somme che le sono state congelate. In Italia, invece, sono sanzioni a perdere.

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi parlando al Forum Ambrosetti ha presentato il conto: «Il conflitto ucraino sinora ci sta costando 41 miliardi, il Pil non crescerà oltre l’1,9 per cento e siamo in recessione tecnica». Ha aggiunto che il 16 per cento delle industrie a causa dei costi insostenibili ha già rinunciato a produrre e un altro 30 per cento lo farà da qui a giugno. Si aggiunge l’inflazione che viaggia verso il 7 per cento. Fitch, prima tra le agenzie di rating, è pronta a declassare l’economia italiana e quella europea.

Nonostante questo, resta il mantra delle sanzioni. Siamo ormai all’embargo della vodka, al perseguimento dei conti delle figlie del presidente russo, al blocco dei porti e del carbone; ma l’unica sanzione che potrebbe fare male a Putin l’Europa non se la può permettere: bloccare il gas russo. Rischia di andare per aria l’Unione europea prima del Cremlino. Mentre il riconfermato presidente ungherese Viktor Orbán fa sapere che «se i russi vogliono che paghiamo il gas in rubli, lo pagheremo in rubli», Germania e Austria non vogliono rinunciare al metano siberiano, in Italia il segretario del Pd Enrico Letta ha provato a sostenere che invece si può. Ha fatto la stessa figura di Margrethe Vestager, la commissaria europea alla concorrenza, quella che ha fatto fallire le banche italiane tosando migliaia di risparmiatori. Ha esortato: «Ognuno può fare due cose per battere la Russia: controllare la doccia sua e dei figli affinché non ci siano sprechi di acqua calda, e dire mentre chiude il rubinetto: “Putin, prendi questo!”». Il livello più o meno è questo.

Solo Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, parlando al Parlamento di Strasburgo ha detto, denunciando i crimini di guerra: «Prima o poi dovremo prendere sanzioni contro il petrolio e il gas russo». Mario Draghi nelle scorse settimane ha sparato un «missile» finanziario che avrebbe dovuto portare Mosca a più miti consigli evitando altre misure che potessero trasformarsi in un boomerang per l’Europa. Così non è stato. Racconta il quotidiano britannico Financial Times che un mese fa Ursula von der Leyen ha chiesto al nostro premier: «Che si fa? Esorti gli americani a dichiarare guerra finanziaria ai russi».

Draghi – stando al racconto del giornale economico – avrebbe convinto, non da presidente del Consiglio italiano ma da ex capo della Bce, la riottosa Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa e già presidente della Federal Reserve, a congelare i fondi esteri della Banca di Russia. La Yellen non ne voleva sapere per due motivi: gli Usa non vogliono pagare dazio e questa mossa scatena un effetto monetario di cui è difficile prevedere l’esito. Dal blocco dei fondi esteri di Mosca è scaturita la contromossa di Putin: farsi pagare in rubli il gas e riagganciare il rublo all’oro. Il siluro di Draghi ha sostanzialmente fatto flop anche se la stampa finanziaria ha continuato ad annunciare default russi e dissidi tra Putin e la sua banchiera centrale Elvira Nabiullina. Non ci sono stati i primi e i secondi sono gossip da retrovie. Anzi, il 6 aprile la Russia ha pagato in rubli due cedole in scadenza del suo pur ridottissimo debito pubblico (160 miliardi di euro) e due giorni prima si era ricomprata un debito da 2 miliardi. Sarà difficile dichiarare il default di Mosca.

È molto più probabile il fallimento di migliaia di imprese in Italia. Si cominciano già a contare i posti di lavoro persi per la ritirata dei capitali russi (Aeroflot, turismo, acciaio, immobiliare) e quelli che saltano perché le imprese italiane non vendono più a Mosca. Sono 8 miliardi di euro andati in fumo: dal vino alla moda, dai mobili alla meccanica. Regioni come le Marche stanno perdendo moltissimo. Ma c’è chi a Mosca è rimasto a produrre. Pirelli – a capitale cinese – è ancora in Russia, Unicredit (ha esposizioni nel Paese per oltre 7 miliardi) ha detto che lascerà, ma occorre tempo, altre 70 aziende italiane restano in attività in Russia. Lo stesso vale per la Francia.

Le aziende transalpine contano 150 mila dipendenti russi e fatturano a Mosca 9 miliardi di euro. Leroy Merlin, Auchan, Danone, Air Liquid, Accor sono ancora in Russia dove Total, la quarta compagnia petrolifera del mondo, possiede il 10 per cento del progetto da 27 miliardi di euro del terminal nel mare di Kara, sull’oceano Artico per il più grande impianto di gas liquefatto. Societé General possiede Rosbank (13 mila impiegati, 5 milioni di clienti). Anche i tedeschi di Metro e Ritter sono rimasti.

I più restii a lasciare sono gli americani. Per Jeffrey Sonnenfeld (Università di Yale), che ogni mese aggiorna la lista dei «renitenti alle sanzioni», 59 imprese americane (da Manitowoc meccanica a Fm Glocal assicurazioni) sono completamente attive, altre 71 producono ma hanno sospeso gli investimenti. A traslocare sono state le griffe: da Chanel a McDonald’s. Ma è tanta scena. Per esempio Renault ha sì bloccato la produzione, continua però a far lavorare AutoVaz, la consociata russa acquistata nel 2008 che produce la Lada occupando 45 mila russi, anche perché il mercato di Mosca rappresenta il 18 per cento delle sue vendite mondiali. E le aziende di proprietà russa continuano a lavorare in varie parti del mondo. È il caso del gruppo Nlmk dell’uomo più ricco di Russia, Vladimir Lisin, re dell’acciaio che produce indisturbato sia in Indiana (Stati Uniti) sia a Verona. Negli Usa nessuno ha pensato di fermare quella immensa fabbrica.

La guerra dell’acciaio è poi un capitolo della guerra di Ucraina. Nel Donbass ci sono enormi riserve di ferro e carbone e gli oligarchi ucraini – uno di loro, Rinat Achmetov, possiede una fonderia nel Veronese dirimpetto a quella di Lisin – hanno cercato di sfidare i russi; non solo Lisin, anche Alexei Mordashov – già proprietario delle acciaierie di Piombino – che continua a fondere in Asia e in India. Chi ha messo le sanzioni in Europa non ne ha tenuto conto. Le nostre acciaierie invece si sono fermate o sono in grosse difficoltà sia per la bolletta energetica che per il costo e la mancanza di materie prime bloccate nei porti ucraini, con la Fiom che stima 26 mila posti di lavoro a rischio. E così vale per una serie di settori industriali: dall’impiantistica alle vetrerie, dalle cartiere all’automotive. I sindacati parlano di almeno mezzo milione di lavoratori che stanno per saltare. Lo stesso vale per l’agricoltura messa in ginocchio dalla carenza di fertilizzanti e dai costi fuori controllo, e per l’agroalimentare a secco di materie prime – dai cereali al latte, visto che le stalle non producono, ai salumi messi in crisi dalle disposizioni europee sugli allevamenti – che teme un devastante «cigno nero»: il crollo dei consumi per effetto dell’inflazione e il fermo della produzione per costi eccessivi.

Mario Draghi, annunciando gli ultimi aiuti per il caro bollette (largamente insufficienti), ebbe a dire: «Se dovesse servire penseremo anche al razionamento». Per noi l’economia di guerra sarebbe un dramma, non per i russi che ci sono abituati. Mette sull’avviso Nicolai Lilin, lo scrittore nato in Transnistria, autore di Educazione siberiana ora in libreria con Putin. L’ultimo zar. Da San Pietroburgo all’Ucraina. «La colpa dell’Occidente è non aver capito Putin, ma neppure i russi. L’83 per cento è con lui: noi parliamo solo con intellettuali e dissidenti, ma la realtà è un’altra».

La realtà è anche la Cina: il viceministro degli esteri Zhao Lijian protesta perché Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna stanno sperimentando nel Pacifico missili ipersonici e ammonisce: «Se gli americani sono interessati con sincerità a risolvere la crisi in Ucraina dovrebbero smettere di sventolare il bastone delle sanzioni». Mentre Pechino dimostra da che parte sta e quanto peso ha, appare tardiva la considerazione del ministro della Finanze tedesco Christian Linder (liberale ultrarigorista): «La mia preoccupazione è che abbiamo una forte dipendenza economica dalla Cina». Ecco, se le sanzioni sono a perdere, forse un motivo c’è.

E il rublo mette l’elmetto

Le mosse di Mosca rispetto alla moneta dovrebbero preoccupare le istituzioni finanziarie occidentali. Si rischia un asse di ferro tra Russia e Cina.

di Carlo Cambi

Si è prestata scarsa attenzione a una recentissima dichiarazione di Dimitri Medvedev che ora è vicepresidente del Consiglio di sicurezza, ma come primo ministro ha consentito allo «Zar» Putin di preparare l’offensiva all’Occidente. Medvedev la vede così: «Le infernali sanzioni occidentali non sono riuscite a paralizzare la Russia, stanno invece tornando indietro in Occidente come un boomerang. La fiducia nelle valute di riserva sta svanendo, abbandonare il dollaro statunitense e l’euro non è più irrealistico: sta arrivando l’era delle valute regionali». Spiega qual è la prossima mossa di Cina e Russia unite. Nell’imminenza dell’ingresso della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio – che è stato il vero start della globalizzazione, – il 16 luglio del 2001 Vladimir Putin e il presidente cinese Jiang Zjemin firmarono il «Trattato di buon vicinato, di amicizia e di cooperazione» che l’allora leader cinese definì il «nuovo modello del XXI secolo». Sono passati vent’anni e ci siamo.

Chi oggi scruta le spille di Elvira Nabiullina – i gioielli sarebbero i suoi segnali in codice – piuttosto che domandarsi se la governatrice della Banca di Russia è ostaggio di Putin o lavora per sostituirlo farebbe meglio a capire cosa fa. Vuole, con la guerra delle monete, disancorare il mercato dell’energia e delle «commodity» dal dollaro come riferimento. Putin pretende il pagamento del gas in rubli attraverso un deposito di euro o dollari convertiti nella divisa russa per togliere dal mercato le altre monete.

C’è poi una seconda mossa della Nabiullina: ha agganciato il rublo all’oro. Sino al 30 giugno un grammo d’oro sarà pari a 5 mila rubli. Gli Usa ruppero la convertibilità del dollaro in oro dopo la guerra del Vietnam: non potevano più reggere il cambio fisso. Oggi la Russia si prende la rivincita d’immagine e se il rublo acquista lo standard fisso diventa intaccabile. La Russia è il terzo estrattore al mondo di metallo giallo e possiede la quinta riserva aurea. La governatrice Nabiullina peraltro non ha il problema che ha oggi Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, di lavorare sui tassi per tenere a bada l’inflazione e in equilibrio i titoli di Stato. La Russia di fatto non ha debito pubblico.

A denunciare che il dollaro è attaccabile e che l’euro sta entrando in sofferenza (ormai è alla parità col biglietto verde) ci sono i movimenti sui titoli di Stato. Si è invertita la curva: chi compra debito americano si fa pagare di più quello «a breve» di quello a lunga durata. Il segnale che si teme una prossima fase recessiva. Egualmente lo spread tra Btp italiano e Bund tedesco è tornato a salire. Approfittando di questa impasse di Fed e Bce, la Banca di Russia sferra il suo attacco. Il rublo è tornato al cambio che aveva col dollaro prima dell’invasione dell’Ucraina. Adesso ci sarà il secondo passaggio. Il rublo diventerà convertibile in renminbi (lo yuan cinese).

Le due superpotenze stanno costruendo un sistema di cambi alternativo al dollaro e di pagamenti alternativo al circuito Swift. Inoltre, attorno alla moneta cinese si sta consolidando tutta l’area non allineata con l’Occidente e che comprende economie in fortissima crescita: come l’India, che pagherà il petrolio russo in rubli ottenendo forti sconti; come il Brasile, fornitore di materie energetiche che accetta pagamenti in rubli; come l’Arabia Saudita – è già quotato a Shanghai il future sul greggio saudita denominato in yuan – e il restante cartello dell’Opec che vende greggio in moneta cinese. È il nuovo modello del ventunesimo secolo, parola di Jiang Zjemin.

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