Il Covid enfatizza le crisi industriali del Paese. Dalle storie senza fine dell’Ilva di Taranto e dell’Alitalia ai nodi della concessione di Autostrade e del prestito garantito dallo Stato per Fca. A complicare la situazione, c’è l’ideologia anti-crescita di una parte del governo.
Nel corpo fiaccato dell’economia italiana la crisi del coronavirus ha riaperto alcune grandi ferite. Lesioni curate male, affidate a medici improvvisati, guidati più dalla ricerca del consenso e dell’applauso che da una logica industriale. E il risultato è sotto gli occhi di tutti, con il governo e il suo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri costretti ad arrabattarsi per cercare di sistemare i casi Ilva, Alitalia, Autostrade mentre si riaprono i dossier Fca e Mps.
«All’Ilva la situazione da grave è diventata gravissima e rischia di diventare irrecuperabile» sostiene Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl. «Al crollo della domanda di acciaio si somma la gestione inefficace dell’amministratore delegato della società controllata da ArcelorMittal, Lucia Morselli. Siamo all’assurdo che mentre a Taranto si va in cassa integrazione l’Italia continua a importare acciaio. Io temo che il gruppo ArcelorMittal abbia perso interesse verso l’Ilva. Anche perché il nostro Paese ha fatto di tutto per farglielo passare».
Bentivogli, che ci tiene a parlare solo dei metalmeccanici, ricorda che un anno fa, a fine maggio 2019, il gruppo franco-indiano aveva concentrato proprio a Taranto molta produzione di acciaio pur in presenza di un calo della domanda. Ma poi c’è stata la decisione del governo italiano di togliere lo scudo penale ai manager e ai quadri di Ilva, cambiando le regole del gioco in corsa e alimentando un clima di sfiducia verso il nostro Paese. «Il governo dovrebbe ricreare un ambiente favorevole per il rilancio dello stabilimento, reintrodurre lo scudo penale e far concludere il risanamento ambientale di Taranto. La pandemia ha mostrato come sia importante avere la produzione di acciaio in prossimità degli utilizzatori, non perdiamo questa occasione».
Ma è difficile essere ottimisti: nell’esecutivo comandano le stesse forze, Movimento Cinque stelle e parte del Pd, che sono dominati da una cultura giustizialista, assistenziale e anti-industriale. Una cultura, presente anche in alcune frange dell’opposizione, che ha prodotto il pasticcio Autostrade. Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova (il 14 agosto del 2018) la linea dell’esecutivo (prima M5s-Lega e poi M5s-Pd) è stata: facciamogliela pagare.
Pur in assenza di una sentenza della magistratura riguardo alle responsabilità di Autostrade, e dopo una serie di minacce contro l’azienda, la possibile revoca della concessione è stata inserita nel decreto Milleproroghe, con il risultato che oggi, in piena crisi economica post-Covid e un crollo del traffico di oltre il 50%, la società dei Benetton ha visto il suo rating creditizio scendere a livello «spazzatura». Di conseguenza le banche hanno chiuso le linee di credito e quando Autostrade ha chiesto il prestito garantito dalla Sace i Cinque stelle si sono messi di traverso.
Poi ci si stupisce se l’azienda blocca 14 miliardi di investimenti sulla rete autostradale: i Benetton saranno pure responsabili di una gestione più attenta ai profitti che alla sicurezza (lo stabiliranno i giudici), ma con questa politica si rischia di mandare all’aria un’azienda quotata con migliaia di azionisti e di dipendenti. E magari farla finire a prezzo scontato nelle mani di un gruppo straniero, alla faccia del nazionalismo.
Anche nella vicenda Alitalia il governo si sta avvitando in una spirale pericolosa, che lo spinge contro le regole della concorrenza. «Anzi, direi che il suo obiettivo è distruggere la concorrenza» commenta Andrea Giuricin, economista dei trasporti all’Università Bicocca di Milano e ricercatore all’Istituto Bruno Leoni. Il programma del governo è far ripartire la compagnia con una dote di circa 3,4 miliardi e una flotta di 92 aerei, una ventina in meno rispetto al periodo pre-Covid. «Con questa flotta Alitalia potrà trasportare 16-17 milioni di passeggeri all’anno, il 10% del mercato italiano a regime» sostiene Giuricin. «Sarà una compagnia molto piccola, basti pensare che Lufthansa conta su più di 700 aerei».
Oltre a usare i soldi dei contribuenti per tenere in piedi Alitalia in questa fase di emergenza, come del resto stanno facendo in molti altri Paesi, il governo ha introdotto una serie di norme scritte apposta per limitare la concorrenza delle compagnie low cost: «Per esempio, concedendo ad Alitalia il monopolio di fatto sui collegamenti con la Sardegna» sottolinea Giuricin «oppure imponendo a tutte le società operanti in Italia il contratto di lavoro sottoscritto da sindacati e Alitalia».
Quindi, superata la fase di emergenza, ci troveremo con una piccola compagnia locale, salvata con i soldi dei contribuenti, che gestisce appena l’8% del traffico aereo da e per l’Italia (e sarebbe un’azienda strategica per il turismo?), con un generalizzato aumento dei prezzi dei biglietti sul mercato e con gli aeroporti minori che chiudono i battenti per la fuga delle low cost. Insomma, per salvare Alitalia, che comunque dovrà accettare tagli del personale, si colpisce l’intero settore.
C’è poi il caso Fca, dove la politica si è infervorata nel discutere se sia giusto che il gruppo automobilistico chieda a Intesa Sanpaolo una linea di credito fino a 6,3 miliardi garantita all’80% dalla Sace, cioè dallo Stato. Una polemica abbastanza surreale, visto che non si tratta di soldi regalati e utilizzabili solo per attività produttive che si svolgono in Italia. Invece bisognerebbe arrabbiarsi perché il governo ha fatto ben poco per sostenere il settore dell’automotive, che dà lavoro a circa 1,6 milioni di persone e che è alle prese con una caduta verticale delle vendite.
«A parte gli incentivi per biciclette e monopattini, per la mobilità non sono stati stanziati fondi nonostante le richieste di sindacati e produttori» ricorda Bentivogli. «Bisognerebbe aiutare il settore con una rottamazione: oggi l’anzianità media delle auto guidate dagli italiani è di 11 anni e 6 mesi e il 40% del parco circolante è costituito da vetture inferiori all’Euro 4».
Una proposta sostenuta da tempo dal Centro Studi Promotor: concedere un consistente contributo a coloro che acquisteranno una vettura «Euro 6 d temp» e rottameranno un’auto di almeno 10 anni di anzianità, vincolato alla concessione di uno sconto di pari entità da parte del venditore del nuovo mezzo. Secondo Promotor «gli incentivi del 1997 determinarono un incremento delle immatricolazioni del 38,8%, non costarono nulla all’erario in quanto la spesa dell’erogazione degli aiuti venne più che ampiamente coperta dal maggior gettito Iva derivante dalle vetture immatricolate in più».
A tutto questo si aggiunse inoltre una spinta alla crescita del Pil pari a 0,4 punti percentuali. Invece oggi il governo si è impuntato a sostenere solo l’auto elettrica o ibrida, senza favorire un più realistico miglioramento della flotta circolante con vetture a benzina o diesel di ultima generazione.
Tra i grandi gruppi che richiederanno l’attenzione de governo nei prossimi mesi c’è anche il Monte dei Paschi di Siena, dove il ministero dell’Economia è entrato nel 2017 con un investimento da 5,4 miliardi per rilevare il 68,2% del capitale della banca. Lo Stato dovrebbe uscire dall’istituto nel 2021, ma è difficile che centri l’obiettivo: la pesante recessione che sta colpendo il Paese renderà complicato trovare un acquirente per una banca non ancora del tutto risanata.
Nel 2019 il Monte dei Paschi ha accusato una perdita di un miliardo di euro e non ha raggiunto gli obiettivi reddituali previsti dal piano di ristrutturazione concordato in sede europea. È probabile che lo Stato resti a Siena ancora per un bel po’ di tempo. Per la felicità di chi immagina un’Italia del futuro in stile venezuelano.
