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Piazza Affari: fenomeno «Delisting»

Piazza Affari: fenomeno «Delisting»

Da Tod’s alla Roma, e poi Atlantia, Cattolica, Autogrill e Exor la holding della famiglia Agnelli, è un fuggi fuggi da Piazza Affari che in pochi mesi ha così perso 47 miliardi di capitalizzazione. Al loro posto, società pubbliche e finanziarie. Così, però, le imprese faticano a crescere.


E’ iniziato qualche anno fa, quasi in sordina, ma ora è diventato un fenomeno carsico che sta sbriciolando il mercato azionario, spingendo Piazza Affari in una posizione di marginalità sullo scenario internazionale. Accade che il capitalismo italiano, per un complesso di motivi, stia abbandonando la Borsa di Milano. Una vera fuga, inizialmente di gruppi medio piccoli e ora di big della nostra imprenditoria, alcuni marchi simbolo del made in Italy. Si sta chiudendo un ciclo ma ancora non si intravedono i contorni di una nuova fase, in un contesto, comunque, di grande fragilità economica del Paese.

Da Tod’s alla Roma, e poi Atlantia, Cattolica, Autogrill e Exor la holding della famiglia Agnelli, è un fuggi fuggi da Piazza Affari dove ora diventano protagoniste le società pubbliche e del settore finanziario. Alcuni osservatori hanno ipotizzato che nel capitalismo italiano si sia insinuato il «virus» dell’ostilità al rischio ma, dal momento che i gruppi uscenti approdano poi in altre piazze e continuano a investire nell’espansione e nel rafforzamento, forse le cause del divorzio da Milano vanno cercate altrove. Che cosa sta accadendo? In gergo si chiama «delisting» ed è un’operazione che si protrae da circa cinque anni durante i quali Milano ha perso 55 miliardi di capitalizzazione, saliti a 100 miliardi nel 2022, con l’addio di Exor e Atlantia e, nelle ultime settimane, di ulteriori 47 miliardi, circa il 7 per cento del valore dell’intero listino. Secondo Giancarlo Giudici, autore di una ricerca dal titolo Sliding doors: il flusso di listini e delisting sul mercato azionario di Borsa italiana (2002-2021) «il rapporto tra capitalizzazione di Borsa e Pil è intorno al 20 per cento, inferiore ai livelli del 2018 e uno dei più bassi in Europa».

L’ultimo caso eclatante è Tod’s che ha effettuato l’Opa, l’Offerta pubblica di acquisto sul flottante, con l’obiettivo di uscire dal listino. Nel maggio scorso è stata la volta di Falck Renewables e poi le operazioni della galassia Benetton con l’Opa di Edizioni su Atlantia cui è seguito il delisting di Autogrill (valore 2,5 miliardi di euro) nell’ambito della fusione con la svizzera Dufry. Un altro addio importante è quello di Exor con capitalizzazione pari a 14,3 miliardi. La holding della famiglia Agnelli lascia Milano per traslocare in Olanda. La lista dei big in ritirata dalla Borsa si conclude con Cattolica Assicurazioni (1,4 miliardi) e Banca Carige a seguito dell’Opa lanciata da Bper. Generalmente il delisting si verifica per disinteresse degli investitori verso il titolo, oppure per trovare un assetto proprietario che conceda maggiori margini di autonomia nella gestione aziendale. Specialmente in quelle realtà che fanno capo a una famiglia di riferimento, tipiche dei marchi italiani del lusso. Ed è questa la strategia della famiglia Della Valle. Nella nota della società si legge che l’obiettivo è di «fare un grande investimento per accelerarne lo sviluppo» per dare ai singoli marchi posseduti una forte visibilità individuale e una grande autonomia operativa. «Il perseguimento di questi obiettivi di medio e lungo periodo sarebbe stato meno agevole mantenendo lo status di società quotata, stanti le limitazioni derivanti dalla necessità di riportare risultati soggetti a verifiche di breve periodo». Di qui l’Opa per superare la soglia del 90 per cento, condizione necessaria per procedere al delisting.

«Della Valle vuole avere le mani libere dai vincoli posti dalla Borsa, primo fra tutti quello di rendere conto agli azionisti di ogni mossa, per rilanciare il gruppo in accordo con Lvmh di Bernard Arnault, che potrebbe diventare l’approdo naturale di Tod’s qualora decidesse di vendere. L’uscita di un grande marchio del lusso made in Italy è una perdita importante per Piazza Affari al pari di quella di Exor» commenta Marco Gozzani. Per l’analista e consulente finanziario di Südtirol Bank, il delisting della holding della famiglia Agnelli ha un significato preoccupante. «Abbandonare Milano per approdare in Olanda, dopo avervi trasferito la sede legale, è la dimostrazione che il mercato italiano non è più attrattivo. Mi sembra l’espressione di una perdita di fiducia nella classe dirigente politica, di qualunque colore essa sia».

Alessandro Fugnoli, strategist del gruppo Kairos, vede nel fenomeno piuttosto un calcolo di convenienza economica. «Se i mercati dovessero tornare a livelli alti si vedrebbero nuovi collocamenti. La quotazione impone maggiori spese e l’azienda è sotto i riflettori tutti i giorni, sottoposta agli umori del mercato, e può subire danni di immagine quando gli analisti esprimono giudizi non positivi. In certi casi può diventare ragionevole ritirarsi dal mercato». Fugnoli non condivide la tesi che il capitalismo italiano stia perdendo la cultura del rischio. «Chi esce dalla Borsa con il 100 per cento del capitale, dopo un’Opa, è perché intende continuare a lavorare per irrobustire l’azienda, quindi c’è un’assunzione di rischio maggiore. Il tema più delicato è che spesso il delisting precede una vendita. L’Italia riesce raramente a farsi protagonista di acquisizioni».

Per Gozzani la perdita di valore importante della Borsa «non aiuta l’arrivo di altri marchi internazionali destinando Piazza Affari alla marginalità». Un altro caso è l’As Roma di calcio. A fine luglio sono usciti i risultati dell’Opa promossa dalla Romulus and Remus Investments, che conferisce alla famiglia Friedkin il possesso del 96,126 per cento delle azioni della società. Ora gli americani, da due anni azionisti di maggioranza del club giallorosso, possono avviare il delisting, previsto a fine agosto, ponendo fine alla quotazione iniziata nel 2000. Secondo uno studio di Intermonte e Politecnico di Milano, negli ultimi 20 anni le ammissioni a Piazza Affari sono state 448, le uscite sono state 336 di cui 268 sul listino principale che ne ha guadagnate solo 185; per contro, il mercato non regolamentato per le Pmi ha attratto 263 imprese con solo 68 cancellazioni. A fronte di un arretramento delle società quotate dal listino principale, è cresciuto il segmento non regolamentato. Il report nota che «lo spopolamento dei listini è globale e risente della maggiore concorrenza del private equity e degli investitori istituzionali grazie ai bassi tassi d’interesse degli ultimi anni».

Andrea Randone, head of Mid Small Cap Research di Intermonte, dice che il fenomeno «è preoccupante» perché riguarda grossi gruppi con una lunga storia, e aumenterà «ulteriormente il differenziale del mercato italiano come rapporto tra capitalizzazione e prodotto interno lordo, rispetto agli altri listini europei». Piazza Affari si prepara a cambiare le regole per attirare matricole e nuovi investitori ma intanto i buoi sono usciti. È un segnale di malessere che il nuovo governo non potrà ignorare.

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