È un tavolo da roulette (russa) quello delle sanzioni contro Vladimir Putin a cui si sono seduti gli europei, l’Italia in particolare. Si sono sentiti enfatici commenti: l’Unione gliela farà pagare al «pazzo» del Cremlino. Il presidente del Consiglio Mario Draghi si è presentato in Parlamento così: «L’Italia non si volterà dall’altra parte» annunciando sostegno con armi e mezzi ai resistenti ucraini e piena adesione alle ritorsioni economiche. Proprio il premier aveva annunciato al mondo: «Adotteremo sanzioni durissime». Viene da chiedersi però che efficacia abbiano. E quali macerie economiche lasceranno.
Siamo il Paese che riceve il maggior «effetto collaterale» dall’invasione dell’Ucraina. Non solo per i 9,8 miliardi che esportiamo in Russia; il conto potrebbe essere di decine e decine di miliardi. Rischiamo di pagare molto di più l’energia, ammesso che Putin continui a darcela. Ne compriamo per circa 12 miliardi. Ma oltre al lucro cessante delle mancate esportazioni c’è il danno emergente per l’indebolimento della nostra struttura produttiva che a causa di costi impazziti va fuori mercato, per il mancato afflusso di denaro dal turismo, per le dismissioni che i russi faranno delle loro proprietà in Italia, oltre al danno finanziario sulle nostre banche esposte a Mosca. Appena le truppe di Putin sono entrate a Kiev massacrando civili e distruggendo tutto quello che hanno trovato sul loro cammino, il commissario agli Affari economici dell’Ue Paolo Gentiloni ha affermato: «Non sappiamo ancora quanto, ma questo scenario frenerà la crescita dell’Europa». Il vicepresidente della Bce Luis de Guindos si è lasciato sfuggire: «L’inflazione al 5,8 per cento in Europa non ce l’aspettavamo».
La conseguenza più devastante non è solo quella energetica anche se dipendiamo per circa il 43 per cento del nostro fabbisogno dal «tubo» che ci porta il gas siberiano e che il capo del Cremlino ha sin qui usato come un guinzaglio. Il pericolo maggiore è la povertà. Con l’inflazione Putin ha messo l’Occidente al muro. L’impennata dei prezzi energetici (petrolio oltre i 110 dollari ed è l’oro nero il vero asset della Russia, una merce difficilmente controllabile, non come il gas che ha bisogno di condotte), il rincaro delle materie prime con il grano che ha toccato il nuovo massimo a oltre 380 dollari a tonnellata, così come il mais (320, prezzo mai visto), l’olio di girasole (sarà introvabile: questi sono i giorni della semina, l’Ucraina da sola produce l’80 per cento di questo grasso indispensabile per tutto) e i fertilizzanti. La Russia ne è la maggior esportatrice. Bloccarla vuol dire rinunciare a molte produzioni agricole. Non è allarme esagerato paventare che ci mancherà cibo. È cosa nota che le scorte di farina in Italia basteranno a malapena per un altro mese.
Un’altra delle presunzioni europee che crolla sotto i colpi della guerra. Se abbiamo pensato – colpevolmente e massimamente in Italia – che potevamo attingere al gas russo senza limiti, abbiamo anche teorizzato che l’Europa poteva rinunciare alla produzione dei campi. Si è fatta strada l’idea, Ursula von der Leyen ne è la prima sostenitrice, che agricoltura e ambiente siano antinomici e l’Europa ha scelto il secondo. Ignorando che la Borsa di Kiev (alimentata soprattutto dalle contrattazioni sulle commodities agricole) è di proprietà della Cina: la Bohai Commodity Exchange, la Borsa merci cinese, dopo aver comprato la Banca ucraina di ricostruzione e sviluppo ha acquisto a gennaio metà del capitale della Borsa di Kiev. Si capisce dove finiranno le merci ucraine. L’Europa potrebbe non avere più così facile accesso a quel mais con cui sfamiamo le nostre stalle (l’Italia dipende dalle pannocchie di Kiev per un quarto della dieta dei suoi animali), che ora è fermo nei porti del mare di Azov peraltro semidistrutti. È vero che la Russia non vende più, ma è anche vero che noi non sappiamo dove comprare. È evidente che tutto questo genera inflazione, il primo enorme danno collaterale. Tocca anche gli Usa, sia pure in modo diverso. In America il problema è che l’economia va forte. I prezzi sono cresciuti del 7,5 ma l’occupazione vola, i consumi anche. Joe Biden ha un problema serissimo: se non fa nulla contro l’inflazione è sicuro che perderà le elezioni di «mid term».
L’Ue viaggia al 5,8 per cento, l’Italia al 5,7, la Germania al 5. Ma non è, almeno da noi, inflazione da eccesso di domanda: è da mancanza di offerta. Perché nel Paese i consumi stanno drasticamente rallentando. Tutte le stime dicono che la previsione ufficiale del governo di crescita del 4,7 per cento è una chimera. Con un tasso al 5,7 per cento rischiamo di crescere in termini nominali meno del 3 per cento, il che vuol dire recessione. La Bce ha detto che dovrà ritardare politiche di contenimento dell’inflazione «in costanza della guerra». Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, presentando il rapporto sull’economia della Germania – prevista in rallentamento a causa dello shock energetico e delle mancate esportazioni – ha scandito smentendo Christine Lagarde: «Se la stabilità dei prezzi lo richiede il consiglio direttivo della Bce deve adeguare il suo corso di politica monetaria».
Significa che la Bundesbank, come già aveva fatto Klaas Knot presidente dalla Banca centrale d’Olanda, chiede di alzare i tassi. Se accade, per noi sono dolori: si blocca il processo di erosione del debito generato dall’inflazione, salgono i tassi dei mutui e la ripresa frena ulteriormente. Intanto l’impennata dei prezzi potrebbe determinare la chiusura di molte aziende. L’ultima stima è che solo la bolletta energetica costi alle imprese 51 miliardi. Non c’è peraltro modo di trovare veloci alternative. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha avuto mandato di riattivare le centrali a carbone, di riprendere le trivellazioni del gas «nostrano». Si punta molto sul gas che viene attraverso il Tap dall’Azerbaijan, al massimo si recuperano 5 miliardi di metri cubi, altri 8-10 si possono trovare dal gasdotto algerino, ma la Russia ne manda 30 miliardi…
Peraltro il prezzo del gas non è deciso da Putin ma è uno standard internazionale, ovunque si compri si paga quel prezzo. E ci si procura il gas liquefatto dal Qatar (4 miliardi di metri cubi al massimo) o dagli Stati Uniti: lo paghiamo quattro volte di più e non abbiamo neppure i rigassificatori sufficienti per trattarlo. I blackout elettrici sono probabili: questo avrebbe un impatto devastante sul sistema delle piccole e medie imprese. Ci sono poi altri settori che entrano in crisi. Per prima l’agricoltura. A questi prezzi e con la scarsità di mangimi, almeno 3 mila stalle sono a rischio chiusura. La crisi del latte è devastante: produrne un litro costa 46 centesimi, è pagato 38.
Il ministro del settore Stefano Patuanelli (pentastellato) ha promesso un intervento su tutta la filiera, ma intanto le vacche muoiono. E sembra non ci si renda conto che per l’agroalimentare il mercato russo vale 1,5 miliardi di euro. L’ortofrutta – già dalle sanzioni del 2014 dopo la crisi della Crimea – è di fatto scomparsa del mercato russo: passata da 400 a 48 milioni di euro. I pastifici – Molisana, Divella, Rummo sono stati i primi a dirlo ma è tutta la filiera del grano che va dagli spaghetti al pane, dai biscotti alle colombe pasquali – hanno già annunciato che ridurranno la produzione. Il vino è fortemente colpito: siamo il primo fornitore della Russia che compra bottiglie per 350 milioni (il 5 per cento del nostro export). L’alimentare di alto pregio – Parmigiano Reggiano, Grana Padano, i prosciutti dop, perfino il caviale italiano – vedrà azzerati circa 300 milioni di fatturato. Ma oltre a non vendere queste filiere rischiamo di non poter produrre.
Altro settore pesantemente danneggiato è la moda. Per noi il mercato russo vale circa 1,3 miliardi, poi c’è il comparto dei mobili, 400 milioni, quello della meccanica che incide per circa 2,3 miliardi. A esportare a Est è per lo più il sistema delle piccole e medie imprese già messo sotto pressione dalla pandemia, dalle bollette, dalla mancanza di materie prime e dai trasporti, che con il gasolio vicino ai 2 euro è in panne. La Confartigianato stima che le Pmi vendano in Russia per 2,7 miliardi. Ci sono interi territori – Emilia-Romagna, Veneto, Marche, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia – dove insistono i distretti della meccanica, della moda, della ceramica che rischiano contraccolpi fortissimi.
Costa Smeralda, Portofino, Versilia vivono grazie ai russi. Gli arrivi erano poco meno di 2 milioni, le presenze oltre 6 milioni, la spesa turistica circa un miliardo. Cancellata. Abramovich, Usmanov, Khomyakov hanno proprietà in mezza Costa Smeralda, i Bazhaev che hanno comprato il Forte Village si sono dati allo shopping alberghiero e ne posseggono una trentina. Hanno partecipazioni nel vino: Russian Standard ha il 70 per cento della Gancia, Konstantin Nikolaev ha investito a Bolgheri. In Costa Smeralda c’è lo spettro dei licenziamenti: giardinieri, manutentori, custodi al servizio degli immobiliaristi russi perdono il lavoro. Lo stesso in Liguria e a Porto Santo Stefano, in Toscana, dov’erano i mega yacht degli oligarchi.
Per contro ci sono gli investimenti italiani in Russia. Le nostre banche – tre in particolare, Unicredit, Intesa-Sanpaolo e Montepaschi, il governo dunque è direttamente coinvolto come primo azionista della banca senese – sarebbero esposte per circa 25,3 miliardi di dollari. I capitali italiani investiti in Russia sono il 2,4 per cento di quelli tricolori nel mondo: 11,5 miliardi di euro. Peraltro, non è vero che Putin non abbia alternative. È già in fase di realizzazione il gasdotto Power of Siberia 2 che porterà a Pechino 50 miliardi di metri cubi di gas. Gazprom ha già un contratto trentennale col primo Power of Siberia per fornire alla Cina 38 miliardi di metri cubi al prezzo garantito di 400 miliardi di dollari, che assicurano alla Cina un vantaggio competitivo energetico. E il pagamento non si fa tramite il decantato sistema Swift. Mentre le nostre stalle non hanno i mangimi si festeggia la mega struttura costruita dalla cinese Zhongding e dalla russa Severny Bur, con un investimento da 161 milioni di dollari, dove ingrassano 100 mila vacche. Perché quelle magre le lasciano a noi.
«Facciamo più agricoltura»

Adesso più che mai, in un contesto globale di difficoltà, «vanno salvaguardate le nostre produzioni. E la politica abbia una visione di sviluppo». Parla Federico Vecchioni, amministratore delegato di BF.
di Carlo Cambi
E’ la più grande impresa italiana del settore.«Il mercato mondiale delle granaglie è in totale stallo. Lo era già prima, ma certo il conflitto in Ucraina ha acuito questo scenario che illustra purtroppo ciò che andavamo dicendo da tempo: la realtà s’incarica di far tramontare l’idea che il mercato globale potesse sopperire alle carenze e che la produzione delle cosiddette commodities non fosse indispensabile. L’Europa scopre che non può approvvigionarsi in America, l’Italia si accorge che è fragilissima. Da qui gli allarmi: manca il grano. Ma se manca, ragioni e responsabilità sono evidentissime». A parlare è Federico Vecchioni (foto), amministratore delegato di BF, la più grande azienda agricola d’Italia: oltre 10 mila ettari in produzione tra proprietà e collegati, un fatturato che dovrebbe avvicinarsi ai 300 milioni di euro. Vecchioni, che ha una sua importante azienda agricola in Maremma, integrata nel «sistema BF» ha la vista lunga e «le scarpe nel fango» precisa. Da cinque anni ha disegnato il nuovo profilo dell’impresa di cui è a capo: «Prima di tutto acquisire terra per costruire una filiera interna, che poggia su un “sottostante” agricolo di qualità. È un po’ come la storia del gas: si può anche trovar comodo dipendere dall’estero, ma alla lunga si paga dazio».
Quello che l’Italia paga in agricoltura è continuare a perdere superficie coltivata, rimettendoci in produzione e identità?
L’abbiamo constatato con amarezza, ma anche con la consapevolezza che si può invertire la tendenza. L’Italia è ferma a 12,8 milioni di ettari coltivati che vanno salvaguardati in ogni modo; ma abbiamo perso, per esempio nel grano, 200 mila ettari. Per limitarci alla cerealicoltura, abbiamo nel grano duro il primo brand italiano perché questo significa pasta. Possiamo metterlo a rischio come sta accadendo? È ora di dire basta. Il nostro schema è stato d’integrare tutta la filiera: dal seme alla pasta. È così che si assicura distribuzione di valore a tutti gli attori, qualità e origine del prodotto al consumatore e possibilità di nuovi investimenti in agricoltura. Poi c’è un’altra sfida da vincere nel nostro Paese, ma anche in Europa: riaffermare la centralità dell’agricoltura come primo motore economico. Spesso ci si bea del marchio made in Italy che ha un successo straordinario nel mondo, anche se queste sanzioni rischiamo di imporci uno stop. Senza considerare che è nei campi che si genera il primo indispensabile valore.
Viene da dire che qui la sfida però è politica, di modello economico, ma anche sociale. Ne avete la forza?
È la forza delle cose che lo impone. Si suonano allarmi attorno all’indipendenza alimentare. E questo è il tema. Ma il punto è che in agricoltura servono investimenti e visioni di lungo periodo e le politiche hanno smesso di avere questa capacità di programmazione. Per esempio, il latte: si passa da una crisi all’altra perché manca un piano strutturale sulla zootecnia. L’ultimo lo si deve al ministro Giovanni Marcora, che aveva un progetto agricolo in testa. Erano gli anni Settanta. Credo che lo shock da possibile carenza alimentare ci indurrà a riscrivere un piano agricolo nazionale.
La sua impresa si muove per compensare questo «vuoto». Con Cai – Consorzi Agrari d’Italia – con le Stagioni d’Italia e Filiera Italia si è costruito un sistema integrato.
Occorrono visione strategica e azioni conseguenti per rilanciare un’agricoltura che sia un campione nazionale capace di competere sul mercato globale, ma assicurando il massimo sviluppo alle nostre identità territoriali. Siamo ricchi di produzioni straordinarie, dai grandi formaggi al riso, dalle eccellenze del vino all’extravergine fino a una zootecnia di altissima qualità. Comparti che però hanno bisogno di essere sostenuti da un progetto strutturato. E da un’adeguata tutela sui mercati internazionali, così come dalle normative europee. È un dato confortante che la finanza si sia accorta della nostra forza. BF è quotata in Borsa, altre realtà agricole stanno sul mercato dei capitali. Anche questa è innovazione. Servono ricerca, sostenibilità, ma anche sostenibilità economica e sociale. Se i progetti agricoli sono buoni si riesce a finanziarli e a renderli remunerativi.
L’Europa pare avere però idee un po’ diverse: si assiste a una volontà quasi liquidatoria dell’agricoltura?
L’Unione soffre di uno strabismo di fondo: è convinta che agricoltura e ambiente siano realtà antitetiche. Invece – e noi in Italia lo testimoniamo concretamente con le nostre imprese – non c’è ambiente senza agricoltura. E qui torniamo al problema della visione che deve avere la politica.
