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Contrabbando minerario

Contrabbando minerario

È recente il caso della Mongolia, dove carbone per miliardi di dollari è finito in Cina grazie alla complicità di funzionari pubblici. Ma il traffico di materie prime colpisce molti Paesi emergenti, per esempio in Sudamerica. E le prime vittime sono i lavoratori del settore, oppressi da un potere corrotto e taglieggiati da bande di malviventi.


Non è cosa da tutti i giorni a Ulan Bator, capitale della Mongolia, vedere dei manifestanti dare fuoco agli alberi di Natale in piazza Sükhbaatar, e bloccare il grande Viale della pace. Vero, non è la prima volta che qui avvengono proteste, ma questa è diversa da tutte le altre. Se la popolazione, tradizionalmente mite, ha preso d’assalto arterie stradali e sedi governative è perché sono spariti senza spiegazione 13 miliardi dollari negli ultimi due anni. Soldi che sono il frutto delle esportazioni di carbone alla Cina e, dunque, del lavoro di centinaia di migliaia di operai del settore estrattivo. Per la popolazione mongola, che conta meno di tre milioni di abitanti, in gran parte nomadi e distribuiti in una delle aree meno popolate del globo, è un duro colpo. E dire che la scoperta di nuovi giacimenti e l’arrivo di grandi investimenti multinazionali aveva fatto sperare il Paese in un cambio di passo circa l’educazione e la formazione, storicamente latitanti, delle nuove generazioni.

Il comparto minerario, secondo stime degli anni Duemila, avrebbe dovuto moltiplicare la ricchezza nazionale di almeno due terzi nel giro di un decennio. In effetti, già al 2012 il Prodotto interno lordo della Mongolia era cresciuto del 17 per cento. Ma poi la regione desertica del Gobi – dove si trova il maggior deposito di carbone del mondo e dov’è tuttora in atto quella che è stata salutata come «una delle trasformazioni più radicali della storia umana» – ha attirato troppa attenzione e conseguente avidità degli speculatori.

Soprattutto da parte dei vicini cinesi, che si sono gettati aggressivamente sulla scoperta delle promettenti potenzialità estrattive dell’area, investendo cifre da capogiro nel settore e piegando di conseguenza alle proprie necessità un sistema economico in delicato sviluppo. La situazione della Mongolia è mutata quindi nel giro di pochi anni: la ricchezza è stata mal redistribuita, cioè drenata all’estero, mentre lo sfruttamento delle risorse idriche ha prodotto un’impennata dell’inquinamento oltre ad altri danni di carattere sociale e ambientale. Già la scorsa primavera migliaia di persone si erano date appuntamento sempre in piazza Sükhbaatar a Ulan Bator, organizzando un presidio durato oltre una settimana per chiedere al governo riforme politiche e l’adozione di meccanismi di controllo per combattere la dilagante corruzione dei funzionari governativi. Per che cosa si protestava, esattamente? Per il fatto che molti dirigenti mongoli abbiano ceduto in tutto e per tutto alle prepotenze cinesi e si siano lasciati convincere ad avallare un traffico illegale di minerali.

I principali implicati nello scandalo, finito nel mirino della magistratura, sono cittadini cinesi accusati di aver falsificato i documenti di transito del carbone e di aver completamente nascosto, grazie alla complicità di funzionari doganali mongoli corrotti, qualcosa come «4,4 milioni di tonnellate di carbone a partire dal 2013». Ma è una cifra al ribasso. È stato lo stesso governo di Ulan Bator, per bocca del ministro dello Sviluppo economico Khurelbaatar Chimed, ad ammettere durante una drammatica conferenza stampa che «persone e funzionari potenti sono stati coinvolti nel furto di carbone. Di conseguenza, la Erdenes Tavan Tolgoi è stata finalmente soggetta a un regime speciale». Tavan Tolgoi è il nome di uno dei maggiori giacimenti di carbone «coke» ancora non pienamente sfruttati al mondo (si stima ne possa produrre 7,5 miliardi di tonnellate), situato nella Mongolia meridionale. Mentre Erdenes è la società d’investimento a partecipazione esclusivamente statale che gestisce l’intera zona mineraria del Gobi. Proprio per questo motivo i dirigenti mongoli sono stati «comprati» dai cinesi, e oggi rischiano come minimo l’accusa di appropriazione indebita.

Lo scorso novembre, l’autorità anticorruzione mongola ha messo sotto inchiesta oltre 30 funzionari di Erdenes, tra cui l’a.d. della società. Pare però che lo scandalo sia destinato ad allargarsi. Grazie alle indagini, è emerso che anche gli addetti alle dogane facevano parte del gioco, chiudendo un occhio sui camion carichi di minerale, lasciandoli passare verso la Cina come normali veicoli passeggeri e senza alcun controllo. Quella quantità di carbone, poi rivenduto dalle autorità di Pechino, serve alla superpotenza non solo per garantirsi l’approvvigionamento energetico, ma anche per falsificare i dati destinati a stabilire le quotazioni della risorsa nel «paniere» della borsa asiatica. In pratica, i cinesi comprano di contrabbando minerali e falsificano le rilevazioni minerarie per sovrastimare la produzione interna e alzare le stime del Pil.

Non è un caso isolato. In Perù tra il 2015 e il 2019 sono state prodotte 720 tonnellate di oro, secondo i dati ufficiali del ministero dell’Energia e delle miniere. Tuttavia, nello stesso periodo, il Paese ne ha esportate 2.242 tonnellate. Com’è stato possibile? «Una delle ragioni più sorprendenti di questa differenza è che i cosiddetti “Asm” non denunciano le quantità di oro che ricavano e finiscono per attraversare i confini» commenta l’esperto minerario Giovanni Brussato. «Asm» è la sigla che denomina le operazioni minerarie artigianali su piccola scala, e costituisce la più rilevante attività estrattiva del mondo. «Oggi rappresenta la principale fonte di occupazione per circa 45 milioni di persone in 80 Paesi». Il mercato «legale» dei minerali potrebbe addirittura essere meno della metà rispetto alla quantità totale che viene estratta. Anche in Colombia le operazioni illegali rappresenterebbero un’industria capace di generare 2,4 miliardi di dollari di profitti, sulla pelle di circa 200 mila minatori che provvedono a stento alle loro famiglie, rischiando anche la salute (visto che in quel caso si estrae mercurio e non oro o carbone).

«L’industria mineraria è stata profondamente inquinata dal denaro illegale» denuncia Brussato. «Con il miglioramento delle normative e della supervisione di innumerevoli settori, il business dell’oro, del litio e di altri minerali ha registrato una crescita sostenuta. Attraverso i mercati e le istituzioni finanziarie meno stabili, le organizzazioni criminali internazionali sono in grado di estrarre, trasformare e vendere minerali illegalmente attraverso furti, estorsioni e corruzione. Quindi, le vendite di tali risorse vengono trasformate in “beni riciclati” che aiutano a finanziare le loro operazioni e attività». Non solo Mongolia, dunque. Anche importanti Paesi del Sudamerica hanno dovuto fare i conti con questo sistema e con svariati gruppi criminali. Per restare in Colombia, i narcoterroristi sono stati tra i maggiori produttori ed esportatori illegali di coltan e tungsteno, oltre che di cocaina e armi da fuoco. In piccoli Stati come la Guyana francese e il Suriname sono state scoperte estese reti di lavoro forzato, insieme con quello minorile connesso ai mercati nazionali illegali dell’oro. I minerali non vengono venduti solo sui mercati regionali, o gestiti dalla Cina, ma spesso arrivano negli Stati Uniti, in Canada e sulle piazze europee. «Questa espansione dell’estrazione illegale, in particolare legata a oro e materie prime come il carbone, ha distrutto intere comunità native, contaminando falde di acqua potabile e ha devastato ambienti ed ecosistemi» conclude Brussato.

Ovunque, i minatori che fanno estrazione artigianale sono minacciati da estorsioni ma, affinché le loro attività sopravvivano, sono costretti a pagare tangenti. Mentre il sistema corruttivo legato ai minerali è, al tempo stesso, un affare della criminalità organizzata e dei governi centrali.

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