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Si sono rotte le Telco

Si sono rotte le Telco

Un settore nazionale ieri fonte di sviluppo e oggi parcellizzato tra operatori soprattutto stranieri. Intanto i profitti si sono ridotti enormemente, con un boom del traffico dati che richiede forti investimenti sulla fibra. Così anche per il Pnrr, che poggia sulle infrastrutture digitali, si preannuncia una stagione complicata.


Piange il telefono: un’industria fondamentale per lo sviluppo del Paese, le telecomunicazioni, è in una situazione critica e se non si cambiano le regole del gioco rischia la bancarotta, mettendo in pericolo l’attuazione del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il cui successo poggia sulla solidità delle infrastrutture digitali. E se vi chiedete com’è possibile che chi offre i servizi più utilizzati da consumatori e aziende sia in difficoltà, la risposta è racchiusa in due proverbi. Il primo è «la gatta frettolosa fa i gattini ciechi»: la gatta è il governo guidato da Romano Prodi che nel 1997 privatizzò Telecom Italia, un’operazione maturata in tutta fretta qualche anno prima per consentire il nostro ingresso nell’euro.

L’idea era affidare il controllo del gruppo telefonico a un nocciolo duro di imprenditori italiani. Pia illusione: come le vicende di Alitalia, Autostrade, Ilva insegnano, l’Italia non ha industriali in grado di gestire grandi organizzazioni ex pubbliche in modo efficiente e di farle crescere a livello internazionale. E infatti la Telecom finì nelle mani di un «nocciolino» dove la famiglia Agnelli, con appena lo 0,6 per cento del capitale, voleva comandare un colosso che allora era il sesto operatore telefonico al mondo, la quarta azienda in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto. Una privatizzazione nata male e proseguita peggio, con la Telecom che ha subito sette passaggi di proprietà e con una dozzina di amministratori delegati, l’ultimo è Pietro Labriola. Un caso unico nel mondo avanzato e in particolare in Europa: in Francia, Germania e Spagna lo Stato ha mantenuto una presenza diretta o indiretta negli ex monopolisti telefonici, considerati giustamente strategici. In Italia invece no.

Il secondo proverbio è «il troppo stroppia». E qui entra in gioco l’Europa, che ha spinto il settore in un’arena di lotte all’ultimo sangue in difesa della concorrenza. La tesi è che nel mercato della telefonia mobile tre operatori non bastano e nonostante l’Italia abbia vissuto fin dall’inizio un’acerrima competizione tra Tim e Omnitel (ora Vodafone Italia, guidata da Aldo Bisio), ai quali si sono aggiunti Wind, Tre, Poste Mobile e altre società che si appoggiano alle reti delle aziende più grandi, al primo segno di consolidamento arriva l’ordine di far entrare un nuovo protagonista per garantire più competizione.

Nel 2016 quando Wind e 3 si unirono nella nuova azienda Wind Tre capitanata da Jeffrey Hedberg, la Commissione le obbligò a cedere alcune frequenze alla francese Iliad, aggressiva impresa di telefonia che è diventata il quarto operatore mobile in Italia sotto il comando di Thomas Reynaud e che ha scatenato una nuova guerra delle tariffe. L’ultima sua mossa è l’offerta per l’acquisto di Vodafone Italia, che ufficialmente non è in vendita: l’obiettivo di Iliad potrebbe essere di fondersi con una società più strutturata e andarsene incassando un «riscatto» per non distruggere ulteriormente il mercato.

È questa una sana competizione? Ciò che i funzionari dell’Antitrust europeo non hanno considerato sono le peculiarità del mercato italiano. È vero che anche negli altri Paesi europei ci sono tre o quattro competitor nella telefonia mobile. Ma gli scossoni sui loro mercati sono meno forti perché la maggioranza dei clienti ha un abbonamento. In Italia invece, unico caso di Paese avanzato al mondo, dominano le ricaricabili. Nato per aggirare la tassa di concessione governativa che si applica ai contratti, altra anomalia italiana, il regime delle ricaricabili rende poco complicato per un utente passare da un operatore all’altro e quindi l’arrivo di un nuovo concorrente con tariffe stracciate provoca immediati spostamenti in massa dei clienti: Iliad nei primi tre mesi d’attività ha rastrellato ben 2 milioni di utenti e ora ne conta più di 8. Del resto in Italia oltre il 90 per cento dei clienti privati ha la ricaricabile, un dato a dir poco stravagante se visto con gli occhi di una multinazionale della telefonia.

Se sul fronte delle entrate l’eccesso di concorrenza riduce i ricavi degli operatori, sul fronte delle uscite l’Italia è un Paese dove investire è più costoso. Per quanto riguarda il fisso e le connessioni a internet, il resto d’Europa ha potuto contare su un’infrastruttura già esistente, quella delle tv via cavo, che ha alleggerito la necessità di investimenti aggiuntivi da parte degli operatori telefonici. Cosa che invece non accade da noi dove infatti si sta costruendo una nuova rete in fibra. Inoltre l’orografia dell’Italia rende più costoso raggiungere alcune località, sia con rete fissa, sia con quella mobile. E ancora: le licenze per poter utilizzare le frequenze pubbliche del 5G sono state cedute a un prezzo iperbolico, oltre 5 miliardi. Lo Stato ha incassato molti soldi dagli operatori basandosi su previsioni errate, anche delle stesse società: si è sottovalutata cioè l’esplosione di internet che obbliga le società di telecomunicazioni ad aumentare la capacità di traffico, senza però veder crescere di pari passo anche i ricavi. In conclusione, rispetto agli altri Paesi, la nostra rete ha bisogno di maggiori investimenti.

Il risultato di tutto questo? Uno scenario da incubo, dove la domanda di connettività sale vertiginosamente e impone nuovi investimenti, mentre i prezzi scendono. Nel 2008 il settore delle telecomunicazioni macinava ricavi per 44,8 miliardi di cui 23,2 dal mobile. Nel 2021 sono calati sotto i 29 miliardi con il mobile crollato a 13 miliardi. In un decennio è sparito un terzo del fatturato complessivo.

Solo la Spagna tra le principali nazioni europee ha avuto un crollo paragonabile (-26 per cento), la Francia ha perso il 16 per cento e la Germania l’8 per cento. Questo è dovuto alla battaglia sulle tariffe: in Italia i prezzi negli ultimi 10 anni sono precipitati del 32,9 per cento. In Europa invece il calo è stato del 18 per cento. Nel frattempo il traffico dati ha subìto una crescita vorticosa, più 1.135 per cento sul fisso e più 4.654 per cento sul mobile. E per star dietro alle richieste dei clienti gli operatori continuano a investire ogni anno dai 6 ai 7 miliardi di euro. Con la conseguenza che i bilanci mostrano qualche crepa: il margine operativo di Tim è passato da 5 miliardi del 2010 a 1,6 miliardi nel 2020. E a pagare il prezzo sono i lavoratori del settore, il cui numero sì è ridotto di 35 mila unità in dieci anni (da 135 a 100 mila) e nei prossimi cinque potrebbe diminuire di altri 10 mila addetti. Ma anche i clienti avrebbero ragione di lamentarsi: nella graduatoria europea per digitalizzazione dell’economia e della società (l’indice Desi) l’Italia si colloca al 20° posto fra i 27 Stati dell’Unione. Solo il 33 per cento delle nostre case avevano nel 2020 un collegamento ad oltre 100 megabit per secondo, contro una media europea del 59,3 per cento.

Anche sul mobile non siamo messi bene: nelle città più densamente abitate la rete 4G è satura, bisogna fare il passaggio al 5G ma questo richiede ulteriori investimenti. Nelle casse delle società non entrano però abbastanza soldi per completare la rete in fibra e aggiornare quella mobile. Come uscirne? Un po’ di aiuto arriverà dal Pnrr. Ma sul fronte dei cellulari gli operatori dovrebbero iniziare a collaborare per realizzare la rete 5G insieme, invece di farne quattro. E nel fisso la mossa degli azionisti di Tim per scorporare la rete va nella direzione giusta se l’obiettivo è di creare una società unica insieme con Open Fiber (controllata da Cdp insieme al fondo Macquarie), perché costruire due reti in fibra nelle aree del Paese non ancora coperte non è economicamente sostenibile. È vero, staccare le rete dall’operatore lo impoverisce. Oggi, però, bisogna scegliere il male minore.

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