L’emergenza Covid ha provocato il collasso del turismo nell’isola. Così il regime, che ha un disperato bisogno di valute forti, rinnega le battaglie ideologiche su cui è stato costruito. Ecco che in alcune decine di supermercati compaiono magicamente merci fino a oggi introvabili. E tutti le possono acquistare. Però bisogna pagare in dollari.
La notizia, dal punto di vista simbolico, è una bomba: Cuba, la patria del comunismo castrista che è stata un esempio ideologico tanto in America latina quanto in Europa, torna al dollaro statunitense; o, per lo meno così vorrebbe il regime da quando, il 16 luglio scorso, il presidente Miguel Díaz-Canel ha annunciato che da adesso in poi il biglietto verde non sarà più gravato dal 10% di imposte rispetto alle altre valute «forti» mondiali, a cominciare dall’euro.
Inoltre, per rafforzare la circolazione e l’entrata di dollari, per la prima volta da più di 60 anni – ovvero da quando la revolución conquistò il potere – sono stati appena aperti contemporaneamente in tutta l’isola 72 supermercati dove i clienti possono trovare di tutto, come negli stores dell’odiato «Impero yankee», a patto che, ironia della sorte, abbiano dollari da spendere.
Il problema centrale è che la crisi del coronavirus ha azzerato da oltre quattro mesi il turismo da Europa e Stati Uniti e L’Avana ha visto dissolversi improvvisamente l’afflusso di «divise» occidentali che da sempre hanno consentito alla dittatura di puntellare i propri disastri in economia. Da un paio di mesi, poi, Donald Trump ha rafforzato le sanzioni contro il regime perché collabora con il Venezuela, la cui leadership, a cominciare dal presidente Nicolás Maduro, è nel mirino di Washington come «narcoterrorista».
Il presidente Usa ha così imposto al colosso Western Union di chiudere i propri uffici nella capitale, rendendo davvero arduo il tradizionale invio di dollari dalla Florida. Come conseguenza, chi detiene il potere si è visto togliere un’ulteriore entrata vitale dato che, per ogni dollaro in ingresso a Cuba, 75 centesimi finivano nelle tasche dell’élite militare che gestiva il business delle rimesse, in partnership appunto con la multinazionale statunitense dei servizi finanziari.
Il risultato dell’apertura al dollaro a Cuba, fin da queste prime settimane, ha messo in evidenza la divisione in classi sociali sempre più rigide e compartimentate. «Sopra c’è, come al solito, l’alta cupola comunista» ragiona con Panorama José Daniel Ferrer, leader dell’Unpacu, la principale associazione di resistenza al castrismo oggi appoggiata da un numero crescente di cubani.
Da pochi mesi il dissidente è uscito dall’ennesima reclusione cui lo costringe da decenni il regime. Continua: «Al di sotto ci sono poi i miei compatrioti che hanno accesso al dollaro e da ultimo, ma di gran lunga maggioritari e tartassati da questa dittatura, si collocano le persone comuni che non possono comperare nulla perché dei biglietti verdi non vedono neanche l’ombra».
Così, in questo «capitalismo alla cubana», le bistecche di manzo e i saponi di marca, le conserve di ogni tipo e pasta e cereali di ottima qualità hanno fatto la propria comparsa soltanto sugli scaffali dei 72 supermercati in dollari. Fuori, file di centinaia di persone aspettano ogni giorno dall’alba con bancomat in valuta estera emessi dalla banca statale cubana. Il motivo? Semplice. La dittatura, per controllare meglio ogni transazione, costringe le persone ad aprire un conto in dollari, che poi non possono però essere ritirati ma spesi per acquisti soltanto tramite l’utilizzo di questo bancomat.
«È, a tutti gli effetti, un ritorno agli anni Novanta. Cuba è diventata non solo il parco a tema turistico, dove vengono a scoprire come si vive nel socialismo reale, ma anche una macchina del tempo per gli stessi cubani che vedono la propria vita tornare al Periodo speciale» si sfogano i più giovani sui social network, facendo riferimento agli anni 1991-2000, quando l’economia del Paese si avvitò su se stessa causa la fine degli aiuti che non arrivavano più dall’Unione sovietica in disfacimento. «Per 60 anni hanno tenuto le persone prigioniere sotto una dittatura con la scusa dell’Impero e ora finiscono per usare la loro valuta» commentano ironici.
Naturalmente, come già nel Periodo speciale, il mercato nero la sta facendo da padrone e il cambio tra il Cuc, il peso forte cubano, e il dollaro, fissato dal regime a un cambio di uno a uno, sta già sfiorando il due a uno. Per avere il polso della realtà, oltre alle code infinite davanti ai supermercati in dollari (con prezzi simili a quelli italiani), dove tutti possono comperare ogni ben di Dio, un buon osservatorio è il sito internet Revolico.com, il più usato dai cubani per il commercio di monete e di merci in nero. Uno spazio che descrive in modo molto più veritiero la dinamica di offerta, domanda, prezzi e altri aspetti nell’economia capitalista sull’isola dell’ormai ex rivoluzione.
Ciò che accade in questo momento nel Paese è che molte banche private, gli istituti di credito e coloro che rivendono e scambiano valuta stanno acquistando la maggior quantità possibile di dollari. Vengono eliminati di conseguenza i normali Cuc, trattenendo la divisa statunitense in attesa che il tasso di cambio aumenti presto, possibilmente molto più dell’attuale, che prevede due pesos per un dollaro.
«È una misura disperata e fallirà così come è fallita la strategia del Cuc, fin dalla sua creazione» spiega un giovane professore di economia dell’Università dell’Avana, che per ovvi motivi vuole mantenere l’anonimato. Il docente riceve il suo stipendio in Cup, i pesos cubani non convertibili che al cambio del regime valgono un trentesimo dei Cuc, una miseria insomma. Come tutti i lavoratori statali non potrebbe avere accesso ai supermercati «dollarizzati», se non fosse per l’aiuto di alcuni familiari che ogni anno lo vengono a trovare da Miami e gli lasciano un po’ di dollari in tasca.
«La decisione di aprire al dollaro» continua il professore «è più legata all’ultimatum che ha dato al regime il Club di Parigi (il gruppo di 22 organizzazioni finanziarie internazionali che rinegoziano i debiti pubblici dei Paesi del Sud del mondo, ndr). Si sfrutta l’ennesima estensione del credito di un anno, ma non c’è una vera strategia. La nuova scadenza finanziaria viene concordata e neanche un mese dopo arriva questo “pacchetto” di incentivi al consumo. Il Club di Parigi reclama e qui ci svegliamo con un nuovo dikat: “Comprate e, poi, si salvi chi può!”».
Intanto per strada, all’alba, le persone davanti alla porta di un supermercato nel quartiere di Miramar di L’Avana commentano tra il rassegnato e il curioso. «Il dollaro non è una moneta che possiamo procurarci con facilità, ma non la vedo come una cosa negativa» dice Maria Lourdes, giovane casalinga.
Effettivamente, per avere dollari a disposizione la trafila è sempre quella faticosa delle rimesse estere. «Se hai parenti che vivono fuori, sono loro a mandarteli» chiarisce Marcos, 30 anni, lavoratore autonomo, «altrimenti possiamo comprarceli noi stessi da chi torna da fuori. La parte più complicata è metterli poi sul bancomat». Passaggio che richiede tempo e ha comunque già fatto lievitare i prezzi.
Hilda lo mostra col suo scontrino, appena uscita da un mercato de La Puntilla. «Centosessanta dollari per pasta, marmellata, carni, formaggi» riassume. «Del resto, l’importante è che ci sia del cibo. Noi lo compriamo anche in questo modo, perché altrimenti non mangiamo».
