Il numero uno della Brembo parla di necessità e incognite della Fase 2. «Ricominciare è un dovere anche per capire cosa è successo». E tra progetti, protocolli sanitari, tragiche immagini della «sua» Bergamo, riflette: «Questa pandemia mette
in luce tutti i limiti della globalizzazione».
«Ho voglia di ricominciare. Non riesco a essere un quasi pensionato, lavoro da 50 anni». Eppure non ha mai smesso, si è fatto installare l’ufficio in casa e nel mese e mezzo da recluso ha approfondito strategie, organizzato protocolli, scritto una lettera ai 3.200 dipendenti italiani, tenuto i rapporti con le grandi case tedesche (Bmw, Audi, Porsche, Volkswagen) che senza i suoi freni non vanno in strada. Dal primo giorno di lockdown, Alberto Bombassei sta preparando l’ultimo, quello della ripartenza. «Mi sono aggrappato alla speranza di un ritorno alla normalità, mentre fuori le sirene delle ambulanze erano ferite sull’anima della mia terra e sulla mia». Ora il grande bergamasco, presidente della multinazionale Brembo (25 stabilimenti in 15 Paesi), è nel suo ufficio al Kilometro rosso con vista su Città alta al tramonto. Un’immobile, dolorosa meraviglia. La riapertura è vicina, la sezione Ricerca e Sviluppo è tornata all’operatività per non fermare progetti internazionali. È il primo segnale, il secondo è il protocollo per la sicurezza sanitaria, in attesa che arrivi il via libera per far ripartire i motori. «Rialzare la testa è un dovere non solo per ricominciare, ma per riflettere su ciò che è successo». Proviamo a farlo.
Presidente Bombassei, come si sta organizzando la Brembo?
«Con una priorità, la salute dei dipendenti. Abbiamo un rapporto di collaborazione con l’istituto Mario Negri, nostro vicino di casa
al Kilometro rosso, e con il professor Giuseppe Remuzzi. Stiamo lavorando a un protocollo che valideremo presto e metterà i dipendenti in condizioni di lavoro di assoluta sicurezza».
In che cosa consiste?
«Oltre alle prescrizioni del protocollo dello Stato (mascherine, distanziamento, sanificazione ambientale) che già garantiscono
il lavoro sicuro, Remuzzi ha previsto tra l’altro il test sierologico con prelievo del sangue per verificare se una persona è venuta a contatto con il virus. È una sorta di patentino sanitario, un protocollo adottato anche a Maranello in Ferrari».
Come sarà il «Giorno 1» dopo l’epidemia?
«La crisi è drammatica, i numeri sono preoccupanti, il comparto dell’auto è stato uno dei più colpiti in un periodo già complicato per la trasformazione verso modelli ibridi ed elettrici. Il nostro settore ha 30 milioni di addetti nel mondo e 1,3 milioni in Italia. Molti sono in cassa integrazione, è dura campare con quella. Magari lentamente, ma dobbiamo ripartire».
L’Europa sta coordinando strategie comuni?
«Non mi sembra sul pezzo, come si suol dire. È necessario che lo faccia perché il nostro mercato ha filiere lunghissime ed è per sua natura internazionale. Le automobili sono assemblate con 30.000 componenti, prodotti in Paesi diversi e organizzati in un sistema di fornitura sofisticato per tempi e modalità di consegna. Tutto dovrebbe essere coordinato».
Invece cosa sta accadendo?
«La Germania ricomincia in larga parte il 3 maggio ma alcune aziende sono ripartite. Altri Paesi sono già al lavoro, i concessionari forse dopo. Sarebbe meglio ricominciare tutti insieme, è fondamentale che le autorità condividano un approccio comune. Stiamo parlando del 10% del Pil europeo. L’Europa fatica a essere un centro motore».
Lei è sempre stato un convinto europeista.
«Lo sono ancora, ma chi critica questa Europa che si è allontanata dallo spirito dei padri fondatori qualche ragione ce l’ha. Eppure è il momento della coesione sia operativa che finanziaria. Se non immetti denaro nel sistema durante un’emergenza simile, quando mai lo farai? La solidarietà in questo caso non solo è eticamente giusta, ma conviene a tutti».
Come si sta comportando il nostro Paese dentro lo tsunami sanitario?
«Noi italiani abbiamo il vizio di litigare nei momenti di difficoltà. Io non lo faccio, il Paese ha bisogno di unità. Siamo stati investiti per primi in Europa dall’ondata del contagio e ci stiamo comportando in maniera adeguata. Qualche errore è stato commesso, e la mancata zona rossa in Val Seriana è uno di questi, ma in una situazione inedita gli sbagli sono quasi inevitabili. Per contro, non possiamo dimenticare esempi di straordinaria positività».
Quali l’hanno colpita di più?
«I medici e gli infermieri dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo meritano un monumento. E gli alpini che hanno realizzato un ospedale da campo in una settimana battendo il record dei cinesi sono stati meravigliosi. Molti giovani, tutti volontari. Questo spirito non può passare in secondo piano, invece qualche volta è successo».
A cosa si riferisce?
«Mi hanno amareggiato programmi tv e articoli nei quali, parlando di Bergamo, sembrava che fossimo dei pasticcioni incapaci. Io sono orgoglioso di essere bergamasco. E mi sono reso disponibile per sostenere una comunità che ha visto mettere in discussione i valori che l’hanno fatta grande».
Come ha reagito alla tragedia?
«Superato lo sconforto, abbiamo aiutato concretamente l’ospedale Papa Giovanni per sostenere l’emergenza. E finanziato gli sforzi che sia la fondazione From dell’ospedale stesso, sia l’istituto Mario Negri stanno compiendo nella ricerca. Il successo industriale di Brembo è sempre stato legato alla ricerca e allo sviluppo; era doveroso tendere la mano a chi lavora con abnegazione a una terapia farmacologica per contrastare il Covid-19».
Il motto bergamasco «Non mollare mai» («mola mia») all’inizio del contagio è stato un boomerang.
«Nessuno si era reso conto della gravità. Qualcuno diceva addirittura che fosse una forte influenza, una polmonite. La filosofia del “poi passa” non ha aiutato, anche quei 30.000 tifosi a San Siro per Atalanta-Valencia hanno contribuito. Ho letto che durante la pandemia del Seicento, Bergamo e la Val Seriana erano state colpite duramente. La scienza ha fatto passi da gigante, ma ci siamo fatti sorprendere un’altra volta. Con il senno di poi siamo tutti professori».
Qual è stato il momento più difficile dell’emergenza?
«Quando ho saputo di avere perso un caro amico, Romano Zanini, con il quale condividevo la passione per le auto d’epoca. Avevamo partecipato insieme alla Mille Miglia. Un grande dolore, aumentato qualche giorno dopo dalla morte della moglie. Per me, come per tante persone colpite negli affetti, ci sarà un prima e un dopo pandemia».
Cosa pensa della task force per la Fase 2 guidata da Vittorio Colao?
«Ho apprezzato il passo di lato della politica, che ha dato spazio agli scienziati quando ha capito che il problema era epidemiologico. Ora, da sanitaria, l’emergenza diventa economica, Colao e la sua task force sono esperti di alto livello, però avrei inserito nei 17 anche imprenditori che calpestano il pavimento dei capannoni e conoscono i problemi concreti dell’industria. Bisogna vedere se la cabina di regia avrà carta bianca o darà solo consigli. Qualche preoccupazione c’è, nella nostra classe politica gli statisti non abbondano».
Quindici task force governative sono eccessive?
«Non mi pare un segnale di forza. Ho la sensazione che la moltiplicazione di commissioni sia difensiva: se le cose vanno bene è merito dei politici, se vanno male è colpa degli esperti. Aggiungerei una raccomandazione: la tempestività nell’applicazione dei provvedimenti a supporto dell’economia è indispensabile. La vocazione a perderci nei labirinti della burocrazia non è compatibile con questa emergenza».
Ogni esperienza lascia una traccia. Cosa ci resterà del coronavirus?
«La conferma della fragilità del nostro modello di sviluppo. In questi decenni si sono affermate un’economia e una cultura che hanno avvicinato il mondo e lo hanno reso interconnesso. La globalizzazione ha consentito a mezzo miliardo di persone alla fame di vivere decorosamente, ma sconta limiti che la pandemia ha messo in evidenza. La rincorsa esasperata al profitto va frenata, dovremo uscire dall’incubo più forti ma anche meno arroganti».
Cosa dirà ai suoi dipendenti il giorno della rinascita?
«Lo sanno già. Ho scritto loro una lettera a Pasqua perché mi mancava il contatto umano e volevo essere vicino alle famiglie in un momento di grande smarrimento. Li ho rassicurati, la nostra volontà di ripartire è totale. Faremo il massimo per garantire a tutti il lavoro».
