La riforma voluta dall’ex ministro renziano Graziano Delrio per ora è più propaganda che realtà. I conflitti d’interesse tra privati si sono trasformati in pubblici. Con un aumento dei costi, spesso poco trasparente, e la divisione degli incarichi fatta con il solito manuale Cencelli.
Da quando la magistratura si è concentrata sul meccanismo burocratico che dovrebbe fare da nastro trasportatore per chi utilizza i porti italiani sono saltati fuori progetti per infrastrutture elefantiache che non si reggono economicamente in piedi, monopoli storici, sprechi vari e reati à gogo. Gli sbandierati accorpamenti tra le Autorità di sistema portuale, gli enti che gestiscono l’organizzazione e il funzionamento degli scali nazionali, sono rimasti burocraticamente sulla carta: le nuove Port authority, insomma, funzionano con le vecchie regole. La grande riforma renziana propagandata al ministero dei Trasporti quando arrivò Graziano Delrio, alla fine, si è rivelata solo una trovata mediatica per ottenere qualche «like» sui social e qualche comparsata sui tg.
Il successore Danilo Toninelli (5 Stelle), poi, non è riuscito a invertire la rotta. E Paola De Micheli (Pd) sembra essere in perfetta continuità con l’era Delrio. Infrastrutture, lavoro portuale e concessioni, i temi sui quali gli addetti ai lavori auspicavano un intervento, infatti, non sono stati toccati. Resta la cupa fotografia offerta da pubblici ministeri e magistrati contabili. All’abolizione dei Comitati portuali, giustificata dai conflitti di interesse di chi ne faceva parte (imprese, sindacati ed enti locali), è seguita la creazione dei board, che dovevano essere snelli, veloci e funzionali: ma agli interessi dei privati è subentrato quello dei soggetti pubblici. E appena se ne è presentata l’occasione è cominciata la solita divisione con manuale Cencelli alla mano per le cariche di vertice che andranno a completare l’occupazione portuale targata Pd. Qualche settimana fa De Micheli ha giocato una carta sulla quale conta molto, affidando a Maria Teresa Di Matteo l’incarico da dirigente generale della Direzione per la vigilanza sulle Autorità portuali.
I 13 presidenti in scadenza di mandato, invece, verranno scelti con un bando (pubblicato a settembre) che ripropone l’impostazione di quello sottoscritto da Delrio. Dal ministero del Tesoro hanno puntualizzato che non si tratta di un concorso, ma che l’avviso mirava a raccogliere soltanto le manifestazioni di interesse. Infatti non è previsto alcun processo selettivo e non ci saranno graduatorie, né sarà reso pubblico l’elenco di coloro che hanno presentato il proprio curriculum. Insomma, la scelta è discrezionale. E, ovviamente, politica. Anche se la procedura prevede che la nomina del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti avvenga d’intesa con i rispettivi presidenti delle Regioni interessate, sentite le Commissioni parlamentari.
Gli altri tre vertici, titolari delle Autorità portuali di Palermo, Messina e Sardegna, resteranno ancora in carica ed erano stati scelti proprio da Delrio. Si tratta di poltrone molto ambite. In primo luogo per i compensi, che vanno dai 250 mila ai 350 mila euro all’anno e si confermano tra i più alti della pubblica amministrazione. Tanto che la Sezione centrale di controllo della Corte dei conti ha segnalato «una generale incoerenza» tra alcuni valori indicati dalle Autorità portuali e le norme di riferimento per quanto riguarda gettoni di presenza, revisori dei conti, importo totale lordo del segretario generale, riduzione delle spese per gli organi.
Sotto esame c’è una circolare del Mit del 10 ottobre 2017 inviata a tutte le Autorità portuali nella quale si ritiene che, a causa della riforma Delrio, i tagli alle spese degli organi delle Port authority non erano applicabili. «Questa corte» ha replicato la magistratura contabile, «ha già chiaramente espresso di non condividere la posizione assunta dal ministero vigilante, in quanto la normativa sulle riduzioni ai compensi degli organi è rivolta a tutte le pubbliche amministrazioni e le eccezioni sono puntualmente indicate nella legge stessa».
A conti fatti, le Autorità portuali spendono quasi 885 milioni di euro ogni anno, 134 dei quali sono impiegate per spese di funzionamento: oltre 5 milioni e mezzo per gli organi di vertice e quasi 106 milioni per il personale. A drenare 19 milioni è l’Autorità portuale di Genova, la più imponente d’Italia, con i suoi 19 dirigenti, 71 quadri e 192 impiegati. Le spese per i vari organi nel 2018 sono pari a 390.824 euro, in aumento rispetto al 2017, quando ammontavano a 375.814 euro. Ci sono casi, infatti, in cui anche i costi di gestione sono in crescita. Altro che tagli. A Gioia Tauro, per esempio, Autorità portuale retta da una gestione commissariale straordinaria sin dal 2014, prorogata da ultimo, con decreto di Delrio, ad Andrea Agostinelli, la spesa per gli organi amministrativi è in aumento del 5 per cento e si attesta a 319 mila euro. E a leggere le relazioni dell’ente ci sarebbero pure carenze di personale tali da non assicurare la migliore gestione delle attività. Le spese per il personale, a scorrere i bilanci, hanno inciso sulle entrate correnti per il 14 per cento, mentre sulle spese correnti per il 25. E mentre si è concentrati a far quadrare i conti per i costi elevati della struttura, la Corte dei conti è costretta a rinnovare l’invito «a realizzare l’effettivo incasso dei finanziamenti in conto capitale per avviare o completare le opere programmate».
A Messina, per l’acquisizione di beni e servizi, vengono rilevati dalle toghe contabili 83 contratti stipulati per un ammontare complessivo di 2,55 milioni di euro, di cui 1,96 «riconducibili a 14 contratti affidati mediante procedura negoziata» e 357.158 euro «per 66 affidamenti diretti» ognuno dei quali con importi sotto la soglia dei 40 mila euro. Civitavecchia, invece, si distingue per i contenziosi mostruosi. L’importo passa dai 30,4 milioni del 2017 ai 34,8 del 2018. Una cifra preoccupante, tanto che il collegio dei revisori nella relazione al rendiconto 2018, dopo aver rilevato che la percentuale di copertura della passività potenziale già accantonata al fondo rischi ammonta solo al 9 per cento, ha richiamato l’attenzione «sulla necessità di destinare tutte le risorse libere disponibili per incrementare gli accantonamenti».
Ma a preoccupare non sono solo i conti. Molte Autorità portuali sono nel mirino delle procure. A Brindisi, per esempio, il presidente Ugo Patroni Griffi, insieme con funzionari dell’ente portuale, progettisti e direttori di lavori, è indagato in una maxi inchiesta in cui si ipotizzano vari reati di abuso edilizio, smaltimento illecito di rifiuti, frode in pubblica fornitura, falsità ideologica e abusi d’ufficio. A Ravenna sono a giudizio per inquinamento ambientale il presidente Daniele Rossi e il segretario generale Paolo Ferrandino. La Berkan B, il «rifiuto navale» mai bonificato che si spezzò nell’ottobre 2017 e che sversa ancora carburanti e olio, resta lì. Il risanamento non parte. A Livorno, infine, sono nei guai per la proroga delle concessioni per le banchine il presidente Stefano Corsini e il segretario generale Massimo Provinciali. E il processo per abuso d’ufficio e falsità ideologica è già partito.
