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Artigiani in liquidazione

Artigiani in liquidazione

Dai calzolai ai riparatori di elettrodomestici fino agli storici mestieri del Made in Italy. Sono sempre di meno, per il mancato ricambio generazionale come per la pressione di burocrazia e fisco. Ci sono alcuni progetti di rilancio, ma il rischio è che vada perduto un patrimonio professionale e sociale.


Marsilio Ficino rileggendo un altro filosofo, il greco Plotino, spiegò – era la seconda metà del Quattrocento – che la materia «non ha di per sé nessuna forza che possa produrre le forme» e che è la qualità che dà sostanza alle cose attraverso l’anima «che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente». Fu il Rinascimento. In quella Firenze – basta fare un giro nell’ex granaio oggi chiesa Orsammichele per averne cognizione – tutti gli artisti erano in realtà iscritti alle arti e dunque erano artigiani. Lo fu sommamente Raffaello che rivoluzionò la bottega: lui creava i capolavori, i suoi allievi le opere d’arte in serie. Un artigianato che si è fatto industria e che ha fatto grande l’Italia. Oggi però è in liquidazione.

Le botteghe chiudono, fiaccate da modelli di consumo usa-e-getta e da produzioni seriali; il loro tramonto va di pari passo con l’abbandono dei borghi e la mutazione dei centri storici in non luoghi: soffocati dalla speculazione immobiliare che sfratta i residenti. Scriveva l’antropologo Marc Augé nella sua «critica alla surmodernità» che i luoghi devono essere relazionali, identitari e storici. Esattamente ciò che è una bottega artigiana ora strangolata dall’espandersi di quello che l’architetto Rem Koolhaas, nel saggio Junkspace definisce spazio-spazzatura orfano di qualità architettoniche, ma gonfio di utilità economiche. L’allarme lo ha dato la Cgia, l’Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, in uno dei suoi puntali dossier: abbiamo perso in dieci anni (dal 2012 al 2022) 325 mila imprese artigiane con una contrazione di quasi il 18 per cento.

Va detto che sotto la voce «artigiani» in Italia c’è di tutto – tranne i ristoranti che si ritengono «somministratori» quando in realtà sono «trasformatori» – e quindi si è operata nel corso degli anni una sostituzione: spariscono i falegnami e i tappezzieri, vengono azzerati gli orologiai ormai sostituiti dal display degli smartphone, aumentano i tatuatori e i centri estetica, ora anche i cosiddetti social media manager (sarebbero gli smanettoni da TikTok a Instagram) e gli influencer diventano artigiani se aprono una partita Iva. A perdersi, però, è l’anima creativa.

Spariscono così calzolai, corniciai, fabbri, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e televisori, sarti. Ma anche gli idraulici cominciano a non poterne più, i tintori sono stati sostituiti dalle lavasecco a gettone e gravissima è la crisi per quel che riguarda i panifici: si stima che manchino almeno cinquemila fornai (le aziende di panificazione artigiane sono 26 mila, un terzo sono già passate in mano a operatori stranieri), ottomila falegnami con l’impossibilità di trovare ebanisti intagliatori e i liutai si contano sulle dita di due mani. Sempre restando nel settore del legno è quasi impossibile trovare un calafato o un maestro d’ascia (un artigiano che sappia riparare una barca) o chi è in grado di restaurare un mobile antico. Tra le figure più richieste ci sono i calzolai, ne mancano almeno quattromila.

Ciò che preoccupa di più è il mancato ricambio generazionale: gli artigiani oltre i 70 anni aumentano del 47 per cento, quelli sotto i 30 crollano del 42. Ancora: non si trova il 73 per cento dei falegnami, il 70 degli addetti alle confezioni, il 64 dei valigiai, il 63 per cento dei meccanici per automobili, il 59 per cento di sarti e modellisti. Come sottolinea lo studio della Cgia – che è guidata da un meccanico: Roberto Bottan – «negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione spaventosa dal valore del lavoro artigiano, oggi anche chi ha un’esperienza di decenni alle spalle se può chiude la bottega e va a fare il dipendente».

Troppo fisco, troppa burocrazia, troppa incertezza sul credito: ultima mazzata i tassi della Banca centrale europea. Eppure le imprese artigiani rappresentano ancora quasi il 10 per cento del Pil e poco meno di un quarto della manifattura. Ci sono interi distretti che si reggono sulle imprese artigiane. È il caso per esempio delle terrecotte di Impruneta, sulle colline di Firenze. Funzionano dal Medioevo, le fornaci rimaste sono sette, ma il distretto del «cotto fiorentino» è più ampio: si estende da Montelupo fino a Borgo San Lorenzo, dove ancora c’è la fornace di Galileo Chini e di altri ceramisti, o a Doccia dove è risorta la Ginori. E sempre in Toscana ci sono gli artigiani di Petroio, nel Senese, che costruiscono addirittura le piscine in terracotta per i divi di Hollywood. Ma serve una perizia antica.

Un’indagine di Confartigianato ha censito 72 distretti di questo tipo che rappresentano il 57,7 per cento del totale dell’occupazione manifatturiera dei 141 distretti italiani. Vi operano 642 mila unità locali d’impresa che danno lavoro a 2.694.295 addetti. Interrogarsi dunque su questo settore e il suo futuro è un obbligo. Lo rileva il presidente di Confartigianato Marco Granelli che lancia l’allarme sull’occupazione e la formazione. «Per le imprese è sempre più difficile trovare manodopera: nell’ultimo anno la quota di lavoratori introvabili sul totale delle assunzioni previste è passata dal 40,3 di luglio 2022 al 47,9 per cento dello scorso luglio. Siamo al paradosso: il lavoro c’è, mancano i lavoratori. E, nel frattempo, 1,7 milioni di giovani tra 15 e 29 anni non studia e non si forma».

Si cerca di colmare queste lacune con l’incremento dei corsi negli Its; istituti tecnici iper specializzati dove si accede dopo il diploma. Su 260 percorsi formativi gli iscritti sono meno di settemila anche con una forte incidenza di abbandono: uno ogni cinque iscritti. Si aspetta il debutto del Liceo del made in Italy il prossimo anno scolastico. È uno dei capisaldi della legge sulla valorizzazione delle produzioni nazionali proposta dal ministro Adolfo Urso che punta molto sull’artigianato. Resta da capire come si fa a salvare le botteghe storiche, i mestieri antichi, il «saper fare» italiano. Una proposta arriva dalle Marche, che è la regione più artigiana d’Italia. Qui il 30 per cento delle imprese sono artigiane (la media in Italia è del 23) e danno lavoro a un quarto degli occupati. Merito di alcuni distretti: quello del mobile, del cappello, della pasta e il più forte di tutti: della calzatura e della pelletteria. Ci sono campioni come Silvano Lattanzi (due anni fa ha celebrato il cinquantesimo di attività della sua Zintala) l’uomo che «fa le scarpe» ai potenti. Divenne famosissimo dieci anni fa per averne prodotto un paio da 52 mila euro. «Erano ricavate» ricorda «dalla pelle di un alligatore selvaggio, trattate in maniere esclusiva. Mi ero inventato come si fa con il formaggio di fossa l’ingrottamento delle pelli». Un procedimento che rende i pellami morbidissimi, dà loro colori particolari e rende ogni pezzo unico (Zintala non realizza più di duemila paia di scarpe all’anno destinate a mercati come Stati Uniti e Cina). Lattanzi è sempre andato controcorrente. Mentre quasi tutti producevano calzature commerciali lui ha cercato la scarpa-opera d’arte, con colori particolarissimi (tutti vegetali), con cuciture rigorosamente a mano, con pelli esclusive. Ha trasmesso questo sapere «ai miei collaboratori che sono tutti artisti» e ai figli Paolo e Roberta.

Ebbene, dal presidente di Confartigianato Enzo Mengoni e da Giorgio Menichelli che guida tecnicamente il territorio Marche Sud (Macerata, Fermo, Ascoli Piceno) è arrivata la proposta dell’«arti-turismo». Si tratta di applicare la formula dell’agriturismo alle botteghe artigiane per ripopolare i borghi dove si collegano con gli alberghi diffusi, per ridare vocazione produttiva ai centri storici. Sottolinea Menichelli: «Il turismo dell’esperienza ha preso piede. Noi vogliamo creare la rete delle botteghe dove si impara l’arte, se ne comprende il valore facendone esperienza offrendo l’abitare nei borghi, il gustare i prodotti dell’artigianato enogastronomico e recuperando le tecniche di tradizione. In questo progetto c’è anche la possibilità di mettere insieme artigiani che vanno in pensione e che passano il testimone ai giovani ai quali insegnano come in passato il mestiere, recuperando socialità tra le generazioni e creando occupazione». In fin dei conti andare a bottega una volta era un onore.

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