Il mercato del trasporto aereo ha regole ferree, ancora più stringenti dopo la pandemia per chi volesse fare utile, o quantomeno evitare passivi pesanti, soprattutto in tema di gestione delle rotte, di aerei, e del numero dei dipendenti. Regole che negli ultimi anni Alitalia non ha mai rispettato ma che ora sarà costretta a seguire.
Le parole di Mario Draghi pronunciate a proposito della futura Alitalia sono state chiare: “Deve sostenersi con le sue ali” ha detto, seppur non nascondendo il suo affetto per la ex (ed neo) compagnia di bandiera. Di diverso dalle altre crisi, quella attuale avviene però in una situazione particolare ed inedita: durante la peggiore crisi globale del trasporto aereo civile dai tempi della nascita dell’aviazione e causata dalla pandemia. Tra compagnie storiche che falliscono, che si fondono e che ricorrono ad aiuti di stato, in primis gli Usa con 209 miliardi di dollari per l’intero comparto approvati un anno fa da Donald Trump, quello di Alitalia che per noi è un problema di grandi dimensioni, rispetto alla visione globale rappresenta una vicenda piccola ma complessa che per essere inquadrata, specialmente se vista da chi lavora nel settore aeronautico, deve poter separare ciò che è aviazione e trasporto aereo da ciò che è politica e opportunismo.
Fare trasporto aereo può essere redditizio, ma perché ciò avvenga è necessario poter essere competitivi e rapidi nell’evoluzione. In Italia le imprese del trasporto aereo non hanno vita fiscale facile quindi partono svantaggiate, e sono come tutte sottoposte alle regole tecniche europee dettate dall’Agenzia europea per la sicurezza del volo, quindi nessuno sconto. In questo scenario Alitalia ha un primato mondiale: non soltanto sono fallite le amministrazioni ordinarie, siamo riusciti a far fallire anche quella straordinaria e a totalizzare tre fallimenti in un decennio.
Ciò che è realmente aviazione vede la possibilità di occupare un segmento di mercato ripartendo con meno aeromobili, da 88 attuali a 45-50 secondo le previsioni, dimezzando i dipendenti da 11.500 a circa 6.000 ma soprattutto facendo sistema sia con altri vettori entrando a far parte di alleanze che funzionano, come Star Alliance del gruppo Lufthansa, oppure facendo accordi con i grandi colonizzatori del mercato italiano, ovvero le low-cost, per portare i passeggeri da e verso destinazioni che convengano a entrambi. In particolare presidiando il mercato del Sud Europa, ma sacrificando l’attuale alleanza SkyTeam con Delta Airlines, AirFrance, China Airlines e altri vettori. Perché farlo? La storia dell’aviazione commerciale insegna che una compagnia come Alitalia, da sola e con meno di 50 aeroplani, non resisterebbe a lungo.
Certo ci sarebbe il lungo raggio verso oriente e il Sudamerica che rende più delle rotte domestiche, ma in regime di quinta libertà dell’aria (da quando, nel 1999, si è potuto proporre voli con origine e destinazione al di fuori della nazione nella quale è registrata una compagnia), il nostro Nordest d’Italia è ormai terreno di conquista di compagnie americane, cinesi, arabe e asiatiche. E il traffico di Fiumicino da solo non basterebbe.
Inoltre l’attuale flotta Alitalia vede in servizio aeromobili tra i più vecchi d’Europa (gli A321 hanno in media oltre 22 anni, gli A320 più di 14, i Boeing 777 hanno circa 18 anni), buona parte dei quali, oggi parcheggiati causa riduzione del traffico, ha motori che consumano il 20% in più di quelli dell’ultima generazione usati dalle compagnie concorrenti. Dunque una ripartenza vedrebbe un’erosione del margine operativo alla fonte già nel momento della messa in moto, stante che il carburante è tra i capitoli di spesa maggiori di ogni società di trasporto aereo. Altri aeromobili, come gli Embraer della Alitalia Cityliner (10 in servizio al dicembre 2020, poi fermati), saranno giocoforza restituiti perché le rate dei leasing sono altissime rispetto a quelle che oggi vengono fatte dai costruttori che devono letteralmente svuotare i piazzali e cercare di non fermare le linee di produzione già rallentate dalla pandemia (Boeing -35%, Airbus -40%). Prima di tutto questo, dalla cordata dei capitani coraggiosi dell’ultimo governo Berlusconi fino al rilancio di Renzi, abbiamo visto la cessione dei preziosi slot di Londra, assistito alla costruzione e poi all’abbandono del centro direzionale di Milano Malpensa, saputo dei corsi d’aggiornamento del personale di cabina Alitalia svolti dal “grande partner” Etihad che però ce li ha fatturati a prezzo pieno compresi i soggiorni in albergo, e molto altri episodi apparsi in cronaca. Ma soprattutto abbiamo assistito al turnover di amministratori che di trasporto aereo erano completamente digiuni, nonostante un mercato dei manager del trasporto aereo che fino al 2019 era molto dinamico perché la crescita del settore era a due cifre in tutto il mondo. Bene fa quindi il governo a mantenere segreti i piani strategici, anche se soltanto dei matti oggi non approfitterebbero dello stato in cui versa l’aviazione commerciale nel mondo (-87% di richiesta sul 2019), per stringere alleanze strategiche per il futuro.
Che sia tempo di evoluzione lo dimostra la recente nascita di nuovi piccoli vettori regionali e la riorganizzazione in chiave “green” di grandi gruppi come sta facendo Air-France/Klm, che però per avere sussidi da Parigi e l’Aia con l’ok di Bruxelles dovrà acquistare nuovi Airbus dell’ultima generazione e quindi dare il suo contributo all’industria franco-tedesco-spagnola.
Ovvio quindi che da Bruxelles non arrivino segnali di flessibilità sulla vicenda di Alitalia, poiché a fronte dell’assenso al piano proposto non ci sono garanzie di investimento per l’acquisto di aeroplani più ecologici fatti in Europa. Draghi l’otto aprile ha anche detto: “Se la Commissione europea usa criteri apparentemente diversi è chiaro che li dovrà giustificare (…) è chiaro che noi non possiamo accettare delle asimmetrie ingiustificate”. Ma il punto è che anche cedendo (svendendo) la metà degli slot di Linate e garantendo la discontinuità con il passato non stiamo dando il segnale industrial-ecologico che questa Commissione oggi si aspetta e neppure stiamo esprimendo la convinzione di voler cambiare dimensioni e organizzazione ad Alitalia, a cominciare dal voler garantire un rinnovo della flotta in chiave “made in Europe”, cioé Airbus.
Ci consoli il fatto che la domanda di voli è destinata a tornare ai volumi pre-pandemia entro un paio d’anni, ma senza visione di quali collegamenti saranno più redditizi, senza il coraggio di mandare in pensione chi ha oltre 56-58 anni (come stanno facendo le compagnie di mezzo mondo), e senza l’unione tra vettori, tutti faranno più fatica e qualcuno, senza più mercato ben identificato, non avrà ali abbastanza forti per reggersi.
Su tutto, nello Stivale pesa ciò che aviazione non è. L’attuale governo ha poco tempo per attuare una soluzione industriale che non degeneri in basso compromesso politico. Alitalia oggi è la più grande azienda del centro-sud del Paese. Oltre agli 11.500 dipendenti ci sono i quasi 35.000 lavoratori dell’indotto. Dal momento che si stanno avvicinando le elezioni amministrative di Roma e il semestre bianco della legislatura, è ovvio che il partito che in campagna elettorale dovesse riuscire a promettere l’ennesimo salvataggio trovando il modo per salvare più posti di lavoro possibile inserendo la questione nel suo programma costruirebbe un grande serbatoio di voti a spese della collettività spostando ancora una volta in avanti la vera soluzione del problema. E’ sempre stato così, una soluzione per Alitalia è sempre arrivata durante le campagne elettorali. E a Bruxelles l’hanno capito.