Ogni anno, al mondo, oltre tremila prodotti della natura vengono modificati e «protetti» con royalties che garantiscono super introiti a un pugno di multinazionali. A farne le spese, miliardi di contadini che li coltivano.
È la nuova battaglia del grano, ma anche dei fagioli, del pomodoro, dei broccoli, del salmone, della frutta. Si combatte a colpi di brevetti. Pare difficile mettere la «privativa» – la protezione di legge che tutela gli autori di nuove invenzioni o scoperte industriali – a ciò che la natura crea. L’uomo però lo trasforma, lo modifica: non di rado per fare utili. Ogni anno sono più di 3.300 nuove varietà vegetali nel mondo protette da brevetto: tra prodotti agricoli e piante ornamentali. I più attivi sono gli olandesi.
Uno dei segmenti dove più acuta è la lotta tra business e ricerca è quello dei cereali. E lo stop agli Ogm serve anche ad arginare questa esplosione di brevetti che trasforma gli agricoltori in lavoratori in conto terzi. Ci sono colossi multinazionali che si contendono il futuro: Syngenta che significa China Chemical, Monsanto che significa Bayer, Basf, DuPont, Cargill che detiene il 35 per cento del mercato mondiale dei cereali, una fetta da circa 100 miliardi di dollari. Sono espressione di giganti della chimica, di Big pharma o di chi sta cercando di costruire i «novel food».
La Cargill, il più vasto impero economico familiare, appartiene agli eredi MacMillan, ma non si è mai quotata su nessuna Borsa, ha un fatturato che si avvicina ai 150 miliardi di dollari e, nonostante venda mangimi per animali, ha lanciato una sfida ai due colossi Beyond Meat e Impossible Food per dominare il mercato dell’ossimoro alimentare: la carne vegana. Cargill detiene il commercio mondiale della soia e vuole brevettare un fagiolo geneticamente modificato con un minor contenuto di fitoestrogeni che proprio una mano santa non sono.
Sulla soia sta lavorando anche la DuPont, un altro colosso che mette insieme Ogm, chimica e sementi. Se acquisiscono la privativa i contadini devono coltivare su licenza, pagando i diritti di sfruttamento e soggiacendo ai prezzi di riacquisto imposti. È successo così con il fagiolo giallo del Messico, che Larry Proctor ha messo sotto privativa nel 1996. Va ricordato che ci sono 1,4 miliardi i contadini nel mondo i quali sopravvivono grazie ai fagioli… Proctor però non ha fatto niente di diverso da quanto sei anni prima aveva intuito Bob Quinn che coltivava con la famiglia grano biologico, antico quanto il mondo, il khorasan. Lo ha battezzato con il nome di un mitologico re egizio: Kamut, e ci ha costruito un impero.
La Kamut International controlla i semi, le coltivazioni che devono essere biologiche, perfino i mulini che da quel grano producono la semola. E in Italia questo frumento ha un omologo, ovvero la Saragolla. I consumatori di mezzo mondo sono convinti che il Kamut sia un grano particolare: si tratta solo di un brevetto commerciale del khorasan, un grano antichissimo originario del territorio tra Turchia e Iran e che fa parte dei cosiddetti «turanici», con un relativamente basso contenuto di glutine. Per avere un’idea di cosa valgono i brevetti agricoli è sufficiente sapere che un chilo di semola Kamut costa come minimo 5,59 euro, e un chilo di khorasan come massimo 2,64 euro. Fa male pensarlo appena trascorsi (e negletti) gli 80 anni dalla scomparsa di Nazareno Strampelli, il genetista nativo di Crispiero – il borgo della provincia di Macerata – che ibridò più di 800 specie di grano, sfamando il mondo senza mai brevettarne neppure una. Sarà per l’eredità di Strampelli che l’Italia è in prima fila nella battaglia delle privative sul grano.
Non più tardi di due anni fa il governo fu indotto da Coldiretti e Bonifiche Ferraresi – guidata da Federico Vecchioni – a porre per la prima volta il golden power su un’azienda agroalimentare: la Verisem, uno dei maggiori operatori nella selezione genetica dei grani, stava per finire in mano ai cinesi della Syngenta. La risposta italiana è stata sviluppare ancora più ricerca. Con la Sis (che fa sempre capo a Bonifiche Ferraresi), ma anche con un’azienda che sta nella terra di Nazzareno Strampelli, l’Agroservice di San Severino Marche. La Verisem sta studiando di nuovo i grani antichi monococco e ha acquisito dai cinesi di Syngenta la Società produttori sementi, proprio per blindare la produzione nostrana. Queste aziende italiane vendono i loro semi brevettati, ma con i proventi pagano la ricerca, non si fanno dare i diritti da chi coltiva. Non tutti si comportano in questo modo: nel resto del mondo i contadini pagano.
Ciò che accade nel grano è ormai prassi consolidata in tutta l’agricoltura, ma i consumatori non ne sono avvertiti, convinti che i marchi siano quelli dei trasformatori. Quando fanno la spesa al supermercato in realtà su molti prodotti pagano «i diritti d’autore» ai detentori dei brevetti. Un caso affatto particolare è quello del salmone gigante. È transgenico, si chiama AquaAdvantage ed è prodotto dalla AquaBounty Technologies. Lo «fabbricano» inserendo geni del Chinnock, un salmone del Pacifico, in quelli del salmone atlantico con una «spruzzata» di cellule di Brondio dell’oceano, ovvero un pesce predatore. Cresce il doppio del normale e si riproduce tutto l’anno. Dove si trova? Ovunque ci sia scritto «salmone atlantico».
Ci sono già le ostriche, le capesante, le vongole e le cozze tetraploidi che sono sterili e ingrassano di continuo. Le ha brevettate la Rutgers University, adottando lo studio di Standish Allen e Ximing Guo. La Monsanto ha provato a brevettare un sistema di accrescimento rapido dei suini. La Newsham che ha comprato il kit dalla multinazionale americana è riuscita a ottenere la privativa in Europa. Così, con questo sistema, chi alleva i maiali paga dazio. Tra gli organismi viventi brevettati ci sono persino i virus. Per esempio, quello che causa la Mers (sindrome respiratoria del Medioriente, un coronavirus parente del Covid) è stato messo sotto tutela dall’Università olandese Erasmus.
Anche nell’orto le royalties hanno avuto successo. I broccoli Beneforte (anticancro e anticolesterolo) sono stati brevettati a partire dagli anni Novanta. Frutto di una ricerca condotta dall’Institute of Food e il John Innes Centre del Norwich Research Park, sono oggi ampiamente coltivati in Sicilia. Lo stesso vale per l’ormai celebre pomodoro di Pachino che è anche un prodotto Igp, ma non è siciliano. Le sementi son state selezionate dalla multinazionale israeliana Hacera Genetics a partire dal 1989. Sui pomodori peraltro c’è un’esasperata competitività che ha fatto morire il San Marzano, un tempo il re dei pomodori italiani, non più ammesso a contributo e dunque espiantato. Al suo posto sono arrivati i semi selezionati da Monsanto-Bayer, Dupont, Syngenta e Kraft-Heinz, quattro imprese globali proprietarie del 70 per cento delle varietà di pomodoro, che vanno coltivate utilizzando i loro fertilizzanti.
Per fortuna talvolta c’è la risposta che arriva dalla ricerca pura. La scuola superiore Sant’Anna, insieme all’Università di Pisa, a quella della Tuscia e di Modena e Reggio, ha sviluppato il Sun Black, il pomodoro nero ad altissima concentrazione di antociani – potenti e benefici antiossidanti – e ne ha registrato a partire dal 2009 il marchio comunitario. Thomantho, il suo nome commerciale, è stato sviluppato dall’azienda L’Ortofruttifero di San Giuliano Terme (Pisa). A Ragusa, sono stati condannati a un anno di reclusione e a salatissime multe tre agricoltori che coltivavano pomodori senza autorizzazione. A scoprirli l’Aib (Anti-infringement bureau for intellectual property rights in plant material), associazione internazionale di diritto belga che agisce come uno 007 sulle sementi agricole.
Tutto questo, nonostante il Parlamento europeo e successivamente lo stesso Ufficio brevetti dell’Unione, abbiano sancito due anni fa che «le piante e gli animali ottenuti esclusivamente con procedimenti essenzialmente biologici non sono più brevettabili in Europa». Però quelli registrati prima del 2020 hanno ancora la privativa che resta valida anche per «i metodi biotecnologici per la produzione di piante transgeniche».
Come hanno aggirato l’ostacolo i brevettatori a scopo di lucro? In due modi. Il primo è ampiamente usato per la frutta e per le mele, e si chiama «contrattualizzazione»: i selezionatori si fanno conferire i diritti di proprietà attraverso la «tutela varietale» e commercializzano i frutti non con il nome varietale, ma con un marchio registrato e ai coltivatori lo concedono dietro pagamento di royalties. Soltanto per stare alle più famose, sono 15 le mele sotto tutela.
L’altro sistema sono i prodotti club. Si seleziona una varietà e invece di venderla si associa chi vuole coltivarla. Siamo al franchising dell’orto.