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Pensioni, la grande tosatura

Pensioni, la grande tosatura

Nella Manovra economica approvata per il 2023 si stabilisce che agli assegni superiori al 1.600 euro netti al mese avranno adeguamenti ben inferiori rispetto all’inflazione. Una rivalutazione che in questo periodo è bruciata da carovita che arriva al 10 per cento. Per far cassa, l’ennesima volta, si colpiscono i soliti noti. Che non amano scendere in piazza.


Vittima designata. Secondo il dizionario Zanichelli è chi viene prescelto «perché subisca gravi danni o angherie». In genere è un soggetto debole, incapace di difendersi, individuato come capro espiatorio. E i soprusi di cui è afflitto vengono ignorati dalla massa. Nell‘Italia delle manovre economiche la vittima designata è un gruppo formato da circa 4 milioni di persone. La loro «colpa»? Essere pensionati e incassare un assegno superiore a 2.101,52 euro lordi al mese, cioè più di 1.650 euro netti. Un reddito che, secondo i nostri politici, è da benestanti e quindi può essere ritoccato a piacere, quando c’è bisogno di far cassa. Un grande bancomat, insomma. E anche il governo Meloni non ha perso l’occasione di prelevare un po’ di soldi ai pensionati: nella manovra da 35 miliardi approvata dal Consiglio dei ministri il 22 novembre, il taglio alle pensioni, ottenuto riducendo l’adeguamento all’inflazione, vale 3,3 miliardi nel 2023 e circa 6,5 miliardi in ciascuno dei due anni successivi, come certificato dalla Banca d’Italia.

Lo avevamo scritto su Panorama il 5 ottobre scorso ed eravamo stati facili profeti: «I pensionati devono stare all’erta perché con il carovita che sale, il Pil che rischia di cadere e con i conti pubblici che traballano, la tentazione del governo di mettere le mani nelle loro tasche è sempre forte». Ma nessuno si aspettava un intervento così duro, sempre che non venga modificato nel frattempo: rallentando in modo drastico l’adeguamento delle pensioni all’inflazione in un momento in cui il carovita è molto alto, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti evita sì di far salire troppo la spesa pensionistica, ma l’effetto sugli assegni si fa sentire parecchio. Per esempio, una pensione di 3.100 lorde perderebbe 1.161,75 euro all’anno in termini di potere d’acquisto. Eppure sui giornali ci si accapiglia sul limite dell’uso dei contanti, sulla flat tax, sul reddito di cittadinanza, sul superbonus. Poche e distratte le parole sulla «rasatura previdenziale» della classe media.

Ma da chi è formata la platea di questi «benestanti» a cui viene periodicamente richiesto di sacrificarsi? In totale all’Inps risultano 16 milioni di pensionati. Di questi, circa 12 milioni percepiscono un assegno inferiore alla fatidica cifra di 2.101,52 euro lordi (cioè quattro volte il trattamento minimo Inps, oggi pari a 525,38 euro mensili) e 4 milioni di anziani la superano. La soglia di 2.101,52 euro è considerato il discrimine tra chi ha diritto ad aver riconosciuto l’adeguamento pieno della pensione al carovita, e chi invece deve vedere l’assegno ridursi progressivamente e per sempre. La rivalutazione delle pensioni viene effettuata, con cadenza annua, a gennaio sulla base dell’inflazione consolidata nell’anno precedente, ricavata dai dati preliminari Istat sull’indice dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati. L’indicizzazione non completa delle pensioni superiori a certi livelli è considerata normale da decenni, anche se ci sarebbe da discutere se sia un meccanismo equo: a differenza di un lavoratore, un pensionato non può chiedere aumenti di stipendio né può cambiare azienda per strappare un contratto migliore. Ogni taglio del suo potere di acquisto è per sempre. Non sembra giusto che lo Stato approfitti dell’inflazione per ridurre la spesa previdenziale danneggiando chi ha lavorato e versato i contributi per una vita. E che magari ha scelto di lasciare il lavoro basandosi su un ammontare della pensione che poi viene modificato a posteriori senza che lui possa farci niente. È una rottura del rapporto di fiducia tra cittadino e Stato.

Ma tant’è, così fan tutti. Da anni le regole vengono cambiate di continuo per fare cassa sui pensionati. Tra il 1996 e il 1998, governi Dini e Prodi, l’indicizzazione all’inflazione al 100 per cento riguardava solo la fascia di importo pari a due volte il trattamento minimo e poi sulle fasce successive la rivalutazione era un po’ più bassa: 90 per cento tra due e tre volte il minimo e poi 75 per cento per tutti gli altri pezzetti di pensione superiori a quella soglia. Un trattamento tutto sommato accettabile perché era a scaglioni, colpiva cioè solo le fasce di importo con il salire della pensione, e non l’intero ammontare dell’assegno. Con i governi D’Alema e Amato, tra il 1999 e il 2000 c’è stata una stretta sullo scaglione superiore a 5 volte il minimo, con un adeguamento di appena il 30 per cento, e addirittura nullo oltre le otto volte il minimo. Ma il sistema progressivo a scaglioni non è stato toccato. Negli anni successivi i governi Berlusconi hanno ripristinato lo schema Prodi, migliorandolo ulteriormente a vantaggio dei pensionati.

Poi è arrivata la crisi e nel 2012 Mario Monti ha dato un forte colpo di freni, addirittura bloccando l’adeguamento all’inflazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo, una decisione mai vista prima. Provvedimento non a caso cassato dalla Corte costituzionale e corretto da Matteo Renzi. Poi con Enrico Letta è stata introdotta la rivalutazione per fasce e non per scaglioni, che quindi applica gli aumenti sull’intero importo. Insomma, un peggioramento. Solo nel 2022, con Mario Draghi, si è tornati finalmente ad un sistema per scaglioni, con la parte della pensione che arriva fino a 2.101,52 euro che si rivaluta al 100 per tutti e poi i vari pezzetti di assegno superiori a quella cifra ottengono un adeguamento leggermente più basso, fino al 75 per cento per la fascia sopra un importo di cinque volte il minimo. Probabilmente il miglior meccanismo di rivalutazione dal punto di vista dei pensionati.

Ora è arrivato il governo Meloni che è tornato al sistema a fasce introdotto da Letta: se la misura prevista in manovra non avrà subito delle modifiche, la rivalutazione delle pensioni nel 2023 e nel 2024 sarebbe del 100 per cento solo per gli importi fino a 4 volte il minimo e poi scenderebbe all’80 per cento per l’intero assegno fino a 2.625 euro lordi (cinque volte il minimo). Alle pensioni comprese tra i 2.626 e i 3.150 euro (tra cinque e sei volte il minimo) spetterebbe invece una rivalutazione del 55 per cento, che scende al 50 per cento per gli assegni compresi tra i 3.151 e i 4.200 euro (tra sei e otto volte la pensione minima), al 40 per cento per quelli tra 4.201 e 5.250 euro (tra otto e dieci volte il minimo) e al 35 per cento per le pensioni che superano quest’ultima soglia. In compenso, le pensioni inferiori al minimo viene riconosciuta una rivalutazione superiore al tasso di inflazione.

A peggiorare la situazione per i pensionati «benestanti» è il fatto che l’inflazione adesso è molto più alta rispetto agli anni passati. Per esempio, quando Monti dovette intervenire nel 2012 bloccando in parte l’indicizzazione, i prezzi al consumo salivano del 2,9 per cento e negli anni successivi si sono mantenuti sotto il 2 per cento. Quindi l’impatto sulle pensioni medio-alte della indicizzazione amputata è stato modesto. Ma ora il livello di inflazione riconosciuto dall’Inps per calcolare la rivalutazione delle pensioni è del 7,3 per cento. E tagliare l’adeguamento alla crescita dei prezzi ha degli effetti notevoli sul potere d’acquisto, come abbiamo visto.

Facciamo qualche altro esempio tratto da uno studio della Uil: il danno subito da una pensione di 3.600 euro lordi sarebbe quantificabile in circa 1.427,47 euro l’anno. Un assegno di 4.100 euro lordi perderebbe invece 1.546,10 euro l’anno. Per una pensione da 5.600 euro lordi, il taglio sarebbe di 2.699,13 euro, cioè 207,63 euro al mese. «Danno che da gennaio 2023 produrrà effetti sulla pensione per il resto della vita del pensionato» sostiene Carmelo Barbagallo, segretario generale del sindacato pensionati della Uil. «Infatti, ogni mancato aumento non ha effetti solo sull’anno di applicazione ma perdura per sempre sulla pensione diminuendone così in modo permanente il valore». «Questo ulteriore depotenziamento» continua il sindacato «si aggiunge quindi ai tagli, blocchi e congelamenti che dal 2011 (governo Monti) sono stati operati sulle pensioni fino al 2021, un decennio che ha impattato notevolmente sul potere d’acquisto dei pensionati con gravi danni che si moltiplicarono al crescere del costo della vita».

Oltre a provocare le proteste di Cgil, Cisl e Uil, che il 7 dicembre hanno incontrato Meloni (ma per parlare soprattutto d’altro), la manovra ha fatto arrabbiare i pensionati della classe media e medio-alta. Che non essendo avvezzi a scendere in strada, scrivono lettere ai giornali. Il Corriere della Sera ne pubblica parecchie, quasi una al giorno: il signor Dario T. ricorda di aver versato per 39 anni, «senza aver potuto fare diversamente né sindacare in merito i contributi impostimi, ho confidato nella certezza del diritto… Ora per l’ennesima volta vedo falcidiato il mio potere di acquisto». Un altro lettore parla di discriminazione sociale e scrive che «le pensioni non devono essere considerate regalie. A seconda delle opportunità del momento, gli anziani pensionati o sono considerati aiuto provvidenziale per le giovani generazione o serbatoi a cui attingere facili finanziamenti». Il signor Antonio Taccola sbotta: «Lavoro, lavoro per vedersi ora privato dell’adeguamento! Non dare a me che ho sempre pagato tasse e tutto, per dare reddito di cittadinanza e aiuti a chi lavora in nero».

Aggiunge Barbagallo, segretario della Uilp: «È un fatto molto grave perché non dà certezza dei diritti ai pensionati italiani e costituisce un intervento che va in direzione opposta alla necessità di aumentare il reddito dei pensionati, anche al fine di sostenere i consumi ed evitare che l’Italia vada, nel 2023, in recessione economica».

Anche il presidente del Centro studi Itinerari previdenziali, Alberto Brambilla, intervistato da Barbara Massaro per Panorama.it, si è mostrato molto critico su questa parte della manovra: «Quelli che hanno sempre versato tasse e contributi alla fine prendono la metà dell’inflazione degli altri (cioè di chi percepisce le pensioni minime, ndr), il che vuole dire che la loro pensione a vita si svaluta di circa il 4 per cento. In parole povere se campano, per dire, ancora dieci anni per ogni anno avranno una rivalutazione che, in realtà, non c’è. Non mi aspettavo che questo governo facesse queste sei fasce. Non tanto per la perdita, che comunque è veramente alta, ma è come dire alla gente che anche se tu sei stato bravo noi non possiamo andare a prendere i soldi altrove e quindi li prendiamo da te. Capisco che la legge di bilancio, nel complesso equilibrata, sia stata fatta in dieci giorni, ma su questo fronte anche questo governo è caduto sul merito».

Si potrebbe aggiungere che i pensionati in Italia pagano più tasse rispetto ai «colleghi» di altri Paesi a noi vicini, come la Francia o la Spagna. Che il 30,8 per cento dell’intero gettito Irpef viene dalle loro tasche. E avendo meno deduzioni dei lavoratori dipendenti, versano più imposte di tutti. Cornuti e mazziati, se perdonate la licenza. Ma anche queste distorsioni non interessano a nessuno, altrimenti che vittime designate sarebbero?

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