Aldo Maria Valli, vaticanista per eccellenza. Anni trascorsi al Tg1 a raccontarci quello che accade nella Curia. Sarà un conclave breve come dicono ormai molti analisti?
«Non sono un profeta, per fortuna. Sento dire che l’accordo non è semplice. D’altra parte nell’era dei mass media la Chiesa non può permettersi un conclave lungo: sarebbe un brutto messaggio».
Una critica ricorrente riguarda la composizione del conclave per nazionalità e comunità. Non sono rappresentate diocesi come Firenze, Palermo, Genova e Venezia. Addirittura, nemmeno Milano, che quanto a numero di fedeli è la più grande al mondo. La critica è sensata oppure la prevalenza del Terzo mondo o del Sud globale in conclave è un fenomeno non nuovo?
«Ritengo giusto che il collegio cardinalizio rifletta la grandezza della Chiesa e la sua universalità. Nulla in contrario a un cardinale della Papua Nuova Guinea o di Tonga. Assurdo però che non ci siano gli arcivescovi di sedi come Milano e Parigi. Un’esclusione che nasce dal populismo bergogliano, che ha fatto delle “periferie” una ideologia».
I tre cardinali italiani più quotati sono Pietro Parolin, Matteo Zuppi e Pierbattista Pizzaballa. Sono tutti papabili che vanno nel segno della continuità rispetto al pontificato di Francesco?
«In realtà non so se siano i più quotati. Prego il buon Dio che non ci mandi un papa Parolin o un papa Zuppi. Parolin ha sulla coscienza l’accordo tra Vaticano e Cina. Zuppi gioca a fare il segretario ombra del Pd. Pizzaballa mi piace. L’ho conosciuto. Serio, credibile, forgiato dalla dura esperienza in Terra Santa. Parla spesso di Gesù, il che oggigiorno non è scontato per un pastore».
Il Papa tornerà a essere europeo e soprattutto italiano. Sembra essere un altro pronostico. Lo condivide?
«Evito i pronostici perché mi espongono a figuracce. Un Papa italiano non mi dispiacerebbe, ma è solo una faccenda di gusto personale. Quello che è importante è che sia un Papa cattolico, ovvero che mi confermi nella fede».
Prevarrà secondo lei la linea della continuità o della discontinuità nella scelta del nuovo vescovo di Roma?
«Penso che solo un acerrimo nemico della Chiesa potrebbe volere un clone di Francesco. Certamente non è stato il primo a picconare la dottrina e la liturgia e a lavorare per la trasformazione della fede cattolica in un vago umanitarismo stile Onu, ma le responsabilità di Bergoglio sono evidenti. Di suo ci ha messo soprattutto il populismo peronista, la ricerca dell’applauso facile, la demagogia, la contraddizione continua tra il dire (sinodalità) e il fare (centralismo), un carattere impossibile. Bisognerebbe essere masochisti per ricaderci».
Chiederle il favorito è una domanda scontatissima. E non mi sottraggo. Ma mi interessa forse di più il generico identikit del Papa che ha in testa il conclave. Prima ancora del nome.
«Dopo un peronista c’è bisogno di un ritorno all’equilibrio, al rispetto delle regole e del diritto. Occorre ricucire un corpo ecclesiale mai così lacerato. Basta con le frasi a effetto ma indeterminate, come “Chiesa in uscita” e “ospedale da campo”. Il Papa sia pastore, non capopopolo. E sia in grado di ridare dignità al papato, istituzione che è stata cannibalizzata dal protagonismo dell’occupante della sede».
Camillo Langone parla di necessità di un «papato minimo». Non protagonista e soverchiante rispetto alla sua comunità di fedeli. Soprattutto in termini di immagine e comunicazione. Condivide la sensatezza di questo desiderio? E soprattutto lo ritiene plausibile in tempi in cui la comunicazione è veramente asfissiante?
«È appunto quello che stavo dicendo. Viviamo tempi confusi. Abbiamo bisogno che la voce del Papa non sia come tutte le altre. Il Papa parli di meno e non parli come fanno tutti. Lui è Pietro, il Vicario di Cristo. E ricordi che la sua è una funzione di servizio. La Chiesa non è sua proprietà».
I dati ufficiali del Vaticano parlano di circa 600.000 fedeli che hanno omaggiato la salma di papa Francesco (esposizione o funerali). Nel caso di Giovanni Paolo II eravamo a quattro milioni. Il confronto sembra impietoso. Un Papa più pop che popolare Bergoglio.
«Ricordo bene l’omaggio a Wojtyla perché ero lì. La folla era impressionante. Dai nostri uffici Rai di Borgo Sant’Angelo era difficile uscire: la fiumana di gente riempiva completamente le strade. Bergoglio è stato il Papa della grande stampa, delle riviste di moda e, in fondo, delle élite. Paradossale per un Papa che parlava continuamente del popolo, ma in realtà ha ideologizzato il popolo».
Il cattolicesimo soprattutto negli Stati Uniti sembra vivere un momento di particolare vitalità. Rappresentato con continuità alla Casa Bianca. Molti interpretano questo particolare stato di grazia come una reazione alla testimonianza di papa Francesco. Perché non interpretarlo piuttosto come un frutto dell’operato di Bergoglio?
«Tutti gli indicatori dicono che negli Stati Uniti, ma non solo, c’è un ritorno alla Tradizione, anche nella liturgia. È una reazione al pontificato bergogliano, appiattito sul mondo, ma soprattutto è espressione di un bisogno di senso. C’è un boom di battezzati adulti. Cercano il significato dell’esistenza e lo trovano in Gesù, non in un Papa o in un arcivescovo. La questione generazionale ha un suo peso. Man mano che vengono meno gli eredi della stagione conciliare, si torna alle basi, ai fondamentali».
Donald Trump, come da suo stile, ha pubblicato una foto generata con l’Intelligenza artificiale dove lui è ritratto nei panni del pontefice. Ma per rimanere al di là dell’Atlantico, le chiedo se i cattolici hanno avuto un peso, e se sì quanto, nel voto alle ultime elezioni americane.
«I cattolici si sono schierati in maggioranza per Trump e hanno fatto la differenza nella vittoria del tycoon. Forse non proprio un atto d’amore verso di lui, ma un voto per scongiurare la deriva wokista. Il radicalismo sinistrorso dei democratici ha spaventato i cattolici. Donald Trump è cresciuto nella chiesa presbiteriana ma ha saputo cogliere le loro preoccupazioni».
Papa Francesco è stato un Papa «rivoluzionario». Secondo la narrazione dominante. Oppure perfetta espressione del suo tempo. Secondo altri. Lei quale opzione sceglie?
«Già il fatto che si parli di rivoluzione a proposito di un Papa fa capire che è stato una sciagura. Il Vicario di Cristo non deve rivoluzionare. Deve custodire e trasmettere il deposito della fede, confermando i fratelli. Bergoglio invece ha confuso i vicini e confermato i lontani».
L’ormai iconica foto di Trump e Zelensky seduti a parlare in Vaticano testimonia la centralità dello Stato pontificio. L’omaggio al suo vescovo defunto ha visto presenti oltre 170 capi di Stato. Roma caput mundi nel vero senso della parola. Pure questa manifestazione di centralità sul piano diplomatico cozza contro alcune critiche contro Francesco. Con lui la Chiesa avrebbe perso fedeli, si dice…
«Non sono mai stato tenero con Francesco, ma il calo dei fedeli non è responsabilità solo sua. È qualcosa che arriva da lontano e non si può spiegare con un solo pontificato. L’immagine di Trump e Zelensky ci ricorda che Roma ha davvero una centralità senza paragoni nel mondo, grazie al papato. Ecco perché l’istituzione del papato e la figura del Papa vanno preservate e messe al riparo da chi vorrebbe banalizzarle».