La settimana scorsa ho raccontato dell’attacco che aveva messo a rischio la privacy di oltre 8 mila bambini inglesi. Pochi giorni dopo le forze dell’ordine britanniche hanno annunciato l’arresto di due diciassettenni ritenuti responsabili della violazione dei sistemi della piattaforma educativa Famly. Due minorenni che si vanno ad aggiungere ad una schiera sempre più lunga di criminali cyber giovani o giovanissimi. Nel 2025 si ricorda l’arresto di Kai West, alias IntelBroker, accusato di avere sottratto documenti governativi e dati Europol. Una carriera iniziata a 21 anni. Da tempo il web è martoriato dalla cyber-gang Scattered Spider, età compresa tra il 17 e i 20 anni, responsabili di attacchi contro casinò, cloud provider e catene come Mark & Spencer. Molti di loro avevano cominciato a 15 anni. Un tempo altri giovani aspiravano a farsi chiamare hacker, erano gli stregoni del silicio, curiosi con il gusto della scoperta, menti che piegavano le macchine per aprire nuovi orizzonti. Poi l’incantesimo è stato spezzato dalla forza del denaro, della vanità, del potere. Oggi, con la rete che distribuisce saperi e strumenti a costo zero, l’hacking è diventato una lingua franca che chiunque può imparare senza comprenderne la grammatica, soprattutto quella morale. La conoscenza, democratizzata, non ha più un maestro che insegni la responsabilità del sapere.
Non è la tecnologia a essere cambiata, ma la pedagogia. In passato si imparava il codice come si imparava il latino: con disciplina, errori, e qualcuno che ti spiegava che ogni parola ha un peso. Oggi si impara per imitazione, in un ecosistema dove il successo è misurato in like o notorietà da forum. Il risultato è un cortocircuito educativo: l’etica non si trasmette per osmosi, ma per esempio. E l’esempio digitale, oggi, è spesso poco più di un’ombra.
Le criptovalute hanno reso il crimine informatico redditizio, ma la ricompensa più ambita resta la fama. La gratificazione dell’hacker adolescente non è il bonifico, ma lo screenshot del disastro. Ogni vulnerabilità sfruttata è una medaglia da esibire, non un allarme da condividere. È qui che l’educazione ha fallito: nell’aver confuso l’intelligenza con la furbizia, nel pensare che la competenza giustifichi l’impunità.
Eppure, la responsabilità non è solo dei ragazzi. Li abbiamo consegnati a una rete che chiamiamo “spazio” digitale, dimenticando che lo spazio, per essere abitabile, richiede regole, confini, educazione civica. A scuola si parla ancora di Dante e della Rivoluzione francese e va bene, ma si dovrebbero spendere due parole anche su phishing, privacy o su cosa significa essere etici, fuori e dentro la rete. Oggi andiamo anche peggio perché qualcuno immagina di affidare la loro alfabetizzazione digitale agli algoritmi, che non conoscono né colpa né perdono.
Non è un’epoca di tecnologie pericolose, ma di tecnologie senza adulti. L’unica difesa possibile è restituire all’educazione tecnologica il suo fondamento morale: insegnare che “capire come funziona” non autorizza a “fare tutto ciò che si può fare”.
Il progresso senza etica non è una corsa in avanti, ma un salto nel nulla.
