Brasile, Colombia, Venezuela e poi Repubblica Dominicana. Accolgono i latitanti di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, che, come un tempo i nazisti, in questi Paesi cambiano nome e cominciano una nuova esistenza. Caso esemplare è quello del narcos Salvatore Mancuso, diviso tra carriera criminale e business del vino.
È l’Eldorado per i criminali di mezzo mondo in fuga. Il Sudamerica accoglie tutti senza fare troppe domande. Perché proprio qui? Innanzitutto perché in questo gigantesco continente si produce cocaina a fiumi, vero bancomat per i latitanti. E poi qui è facilissimo cambiare identità e riciclare i miliardi della mafia senza troppi ostacoli. Se si hanno i soldi puoi fare la bella vita, tra lussi e donne che nella Vecchia Europa salterebbero subito all’occhio degli inquirenti, mentre a queste latitudini sono la norma per imprenditori e politici abituati a esibire le loro ricchezze.
Lo sanno bene mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti di casa nostra che qui da sempre si rifugiano evitando di farsi la guerra tra loro. Come dimostra la storia di Leonardo Badalamenti, il figlio di Don Tano, il famoso capo della cupola di Cosa nostra negli anni Settanta. Come il padre, che si rifugiò per lunghi periodi a San Paolo del Brasile per finire poi in carcere negli Stati Uniti, anche il figlio ha scelto San Paolo per vivere con il falso nome di Carlos Massetti; lo scorso 5 agosto è stato arrestato in Sicilia col figlio Gaetano, per un tentativo maldestro di riappropriarsi con la violenza del casolare di famiglia, a Cinisi.
Badalamenti era stato già arrestato in Brasile nel 2009 per una frode ai danni di Lehman Brothers mentre Gaetano, come il nonno, era stato fermato l’anno successivo per avere malmenato due omosessuali nel centro di San Paolo. Come abbia fatto il figlio di Don Tano a vivere indisturbato per decenni in Brasile lo spiegò, già nel 2009, l’allora capo dell’Interpol-Brasil, Jorge Pontes: «Il suo è un tipico caso di riciclaggio di identità. Come nel caso dei criminali nazisti, è riuscito a crearsi una nuova esistenza».
Sempre in Brasile, in passato (era il 1984) il mafioso Giuseppe Bizzarro, venne interrogato da Giovanni Falcone nel carcere di Belo Horizonte. Impassibile, negò ogni accusa e l’esistenza stessa della mafia ma, soprattutto, negò di essere se stesso: «Mi chiamo José Carlos Fatore Lanza» disse a Falcone. «Non so di che cosa sono accusato, deve esserci un errore di una persona. Sono un prigioniero politico».
Bizzarro era stato arrestato il 24 ottobre 1983, insieme a Tommaso Buscetta e allo stesso Leonardo Badalamenti, a conferma di come il Paese del samba sia centrale da decenni per Cosa nostra. E se Bizzarro da allora è scomparso nel nulla, storie come quella di Badalamenti sono la norma in Sudamerica. Dall’arresto del grande broker della cocaina Roberto Pannunzi in Colombia, nel 2013, a quello di Nicola Assisi e suo figlio Patrick, dallo scorso anno in attesa di estradizione in Italia dal Brasile, passando per Rocco Morabito, arrestato dopo una maxi latitanza a Punta del Este, in Uruguay, ma riuscito poi a evadere dal carcere di Montevideo. Per non parlare di Antonio Bardellino, boss della camorra dato per morto ma sulla cui scomparsa aleggia il mistero, visto che il corpo non è mai stato trovato. Alcune fonti lo vogliono ancora vivo in Repubblica Domenicana, dove abitano la sua seconda moglie e i figli.
Salvatore Mancuso, il capo del più potente gruppo paramilitare colombiano, l’Auc, è un altro caso da manuale, anche perché arriverà presto in Italia. È stato uno dei tanti partner commerciali della ‘ndrangheta nel mondo e sta finendo di scontare una condanna a 12 anni per narcotraffico in un carcere degli Stati Uniti. Il 16 aprile di quest’anno, su richiesta dei suoi difensori, le autorità americane hanno stabilito che il prossimo 4 settembre, quando concluderà la sua pena, Mancuso sarà espulso in Italia.
Uno dei criminali più feroci del Sudamerica ha, infatti, anche il passaporto italiano (il padre era originario di Sapri, in Campania). La Colombia vorrebbe processarlo anche per i massacri delle Auv e per crimini contro l’umanità, e per questo ha chiesto che sia rimandato invece a Bogotà, dove potrebbe rivelare verità scottanti.
Mancuso ha già riconosciuto che, ogni anno con il solo traffico di droga, vengono immessi nell’economia colombiana circa 7 miliardi di dollari. In Colombia aveva iniziato la sua carriera creando una struttura per la protezione dei contadini contro la guerriglia marxista delle Farc, che negli anni Ottanta aveva iniziato a rapire i figli della borghesia terriera. Poi, con il passare del tempo, ha cominciato a gestire il traffico, entrando nel giro dei narcos, gestendo personalmente i rapporti con le organizzazioni criminali, soprattutto con la ‘ndrangheta.
Ma Mancuso ha avuto anche un’attività imprenditoriale come importatore di vino e, per questo, nel 2003 era entrato nell’inchiesta del magistrato Nicola Gratteri e dell’allora Procuratore generale di Reggio Calabria. Gli inquirenti italiani erano sulle tracce di un certo Giorgio Sale, imprenditore italiano che in Colombia importava appunto vino e gestiva alcuni ristoranti. Sale, morto nel 2015 portandosi dietro molti segreti, aveva iniziato a parlare con Mancuso di Brunello di Montalcino e poi di investimenti in Italia. Era evidente l’interesse del boss per trasferirsi nel nostro Paese, evitando così il carcere. All’epoca ordinò agli intermediari della ‘ndrangheta di investire in Toscana – principalmente in strutture turistiche – e nel Lazio.
Mancuso corrompeva con facilità i pezzi grossi della politica colombiana, ma già pensava a un ben altro «buen retiro» come conferma ora il tentativo dei suoi difensori di farlo presto arrivare in Italia. Dopo essere stato estradato negli Usa nel 2008, Mancuso fu interrogato da Gratteri a Washington, con mani e piedi legati. «E questo sarebbe impossibile in Italia» spiega il magistrato calabrese autore con Antonio Nicaso de La Mala Pianta, dove sul ruolo di Mancuso si parla con dovizia di particolari.
Altro grande boss italiano con interessi in America Latina è il super ricercato Matteo Messina Denaro, legato soprattutto al Venezuela, dove in passato sono stati arrestati due latitanti suoi sodali, Vincenzo Spezia e Francesco Termine. «Proprio in Venezuela gli investigatori hanno individuato un gruppo di trapanesi con cui ha storici rapporti» scrive Lirio Abbate nel suo libro U siccu, sottolineando come il latitante oggi più importante di Cosa nostra possa «viaggiare facilmente in Sudamerica e in Paesi in cui ha rapporti con organizzazioni criminali locali».
I legami di Messina Denaro con il Venezuela, che già in passato fu la base preferita dalla famiglia dei Cuntrera-Caruana, sono forti, come sosteneva già 22 anni fa un piccolo pentito di mafia – Franco Safina – che rivelò come il boss di Cosa nostra avesse un vero e proprio «tesoro in Venezuela». Safina fece il nome del boss di Partanna, città del Trapanese, che si era occupato dell’avvio e della gestione di un investimento importante – Nicola Accardo – offrendo i dettagli: «Furono recapitati cinque milioni di dollari in Sudamerica per aprire un’azienda di pollame ufficialmente intestata a un siciliano, tal Gaspare Bianco». Messina Denaro è latitante dal 1993 e, come per Bardellino, la sua biografia s’incrocia con l’Eldorado sudamericano, il continente ideale per dissolversi nel nulla.