Home » Attualità » Cronaca » Sisma nelle Marche: «Ci vorranno 10 anni per tornare alla normalità»

Sisma nelle Marche: «Ci vorranno 10 anni per tornare alla normalità»

Sisma nelle Marche: «Ci vorranno 10 anni per tornare alla normalità»

Sono le parole del sindaco di Visso, nelle Marche, uno dei centri più colpiti dal terremoto del 2016. I tempi della ricostruzione si sono allungati per le procedure, «la mancata organizzazione» rilevata anche dalla Corte dei conti e l’aumento dei prezzi. Ma non mancano i furbetti dell’emergenza. Risultato: ci sono ancora 30 mila persone sfollate.


«Mi auguro che entro dieci anni sia tutto ultimato». Le parole sono del sindaco di Visso, Gianluigi Spiganti Maurizi, e non sono datate il mese dopo il terremoto del 2016 che rase al suolo il piccolo comune delle Marche insieme ad altri 138 località delle vicine Umbria, Abruzzo e Lazio. E non è nemmeno l’auspicio espresso un anno dopo. Risalgono a qualche giorno fa, a sei anni dalla distruzione. Poco è cambiato da allora. Il centro storico di Visso è ancora zona rossa, transennato e inagibile. Macerie di case sgretolate, edifici sventrati, vicoli fantasma, piazze deserte. Il tempo è fermo.

«Entro fine mese dovrebbero iniziare le demolizioni, abbiamo individuato le ditte» dice con un filo di voce il primo cittadino. Ancora a questo punto? «Che vuole che le dica… Il territorio è sottoposto a vincoli paesaggistici, la soprintendenza vigila ogni mossa. Ci sono palazzi storici, vanno recuperati fregi, portali, frontoni, non si possono mica buttare giù come niente fosse. Bisogna ricostruire com’era e dov’era». Sembra di risentire le parole dell’allora premier Matteo Renzi che avrebbe voluto intestarsi una ricostruzione-lampo o quelle dei vari commissari straordinari, quattro in sei anni, espressioni del Pd, pronti a rispondere a brutto muso a chi metteva in guardia da un altro Belice. Il primo, Vasco Errani, pensava si potesse esportare il modello Emilia-Romagna per rimettere in piedi borghi che anche un ingenuo sapeva completamente diversi per morfologia e caratteristiche architettoniche. Da quel momento fu tutto un accumulare ordinanze che correggevano quelle precedenti, una bulimia normativa che ha creato caos e incertezza. Fino a quando è emerso che quella burocrazia dispensata a piene mani per scongiurare il male atavico della corruzione tipico di ogni ricostruzione era proprio l’ostacolo maggiore. Così è cominciato il «disboscamento» dei codicilli, con un ritardo i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti.

Ora alla struttura commissariale per la ricostruzione arriva Guido Castelli, fortemente voluto del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con il compito di «mettere il turbo» ai cantieri. Nel frattempo altri ostacoli si sono materializzati, come i rincari energetici e delle materie prime, la fuga dei tecnici attirati dai lucrosi progetti che gli incentivi fiscali offrono nei grandi centri urbani. I costi dei preventivi sono saltati e anche se i listini dei contributi pubblici sono stati ritoccati, non riescono a coprire tutti i lavori. Sicché chi non riesce a mettere mano al proprio portafoglio preferisce rinviare in attesa di un momento più favorevole. I dati chiariscono la situazione. In base all’ultimo report della struttura commissariale, a fine 2022 erano pervenuti 28 mila progetti di ricostruzione per abitazioni e imprese private per 10 miliardi di euro. Sono il 27,7 per cento in più rispetto al 2021 ma appena il 54 per cento di quelle attese e a fronte di 80 mila edifici inagibili. Su 15.736 progetti finanziati (+29,4 per cento sul 2021) per 5,3 miliardi di euro, appena 7.333 cantieri privati sono stati aperti e 8.318 conclusi con la consegna di circa 20 unità immobiliari. Va ricordato che gli sfollati sono ancora circa 30 mila.

Molto indietro la ricostruzione pubblica. Ci sono 2.500 interventi programmati e finanziati con 3,6 miliardi, tra cui 450 scuole per 1,4 miliardi e 1.251 su chiese ed edifici di culto, per 800 milioni. Le risorse erogate ammontano a 935 milioni di euro, il 67 per cento in più rispetto al 2021, ma ancora decisamente insufficienti. E sull’incapacità di spesa delle strutture commissariali che finora si sono avvicendate, nonostante qualche progresso negli ultimi anni, ha acceso i riflettori la Corte dei conti. In un’indagine, la prima dopo il sisma, la magistratura contabile ha messo a nudo i deficit delle gestioni commissariali, a cominciare dalla «mancanza di una organizzazione». Ma soprattutto ha evidenziato l’incapacità di spendere gli ingenti fondi provenienti dalla fiscalità generale. Soldi dei contribuenti rimasti in parte inutilizzati.

Al 30 giugno scorso c’erano a disposizione del Commissario straordinario ben 4,388 miliardi di euro. Nel periodo 2016-2020, la contabilità speciale del Commissario contava 2,908 miliardi di euro (dei quali 2,568 miliardi di euro arrivati dal ministero dell’Economia e delle Finanze), ma le uscite sono state per complessivi 1,140 miliardi di euro (al 30 giugno 2021 i pagamenti ammontano a complessivi 1,321 miliardi), si legge nella relazione. Di conseguenza sono state registrate, nella medesima contabilità, «giacenze inutilizzate per le finalità alle quali erano destinate per diversi anni e per ingenti importi pari, al 31 dicembre 2020, a complessivi 1,769 miliardi».

A valle di queste lentezze c’è la realtà dei terremotati che per gran parte continuano a vivere nelle Sae, i moduli prefabbricati trasformati da soluzioni di emergenza in alloggi definitivi. Circa 25 mila persone percepiscono ancora il Cas, il contributo pubblico di autonoma sistemazione che per gli over 65 vale oltre 400 euro al mese. Una famiglia con anziano arriva a prendere anche mille euro. Ad Amatrice, il centro laziale tra i più colpiti, solo il 20 per cento della popolazione è rientrata nelle case di proprietà, mentre circa 900 persone vivono nelle Sae. Il sindaco, Giorgio Cortellesi, riferisce che appena il 22 per cento del patrimonio edilizio distrutto è stato ricostruito e nel centro storico i lavori stanno partendo ora. «Gli incentivi fiscali hanno causato un danno enorme alla ricostruzione. Imprese e tecnici vanno a lavorare dove si guadagna di più e il territorio è più facile da raggiungere. Inoltre i materiali sono difficili da reperire e i prezzi sono alle stelle. I contributi pubblici non bastano e nessuno vuole rimetterci di tasca propria». Non mancano poi i furbetti dei sussidi. «L’assistenzialismo troppo spinto non aiuta, ci si adagia e si pensa di vivere un’eterna vita da terremotati.

Il ritorno alla normalità sta diventando difficile» commenta il sindaco e indica le situazioni anomale più diffuse: «C’è chi non vuole lasciare la Sae perché nel frattempo ha affittato la casa restaurata. La legge dice che le casette devono essere lasciate quando l’immobile distrutto torna agibile ma non dice quale sanzione applicare a chi non si adegua. Stiamo cercando il modo di farli sgomberare, il comune non può continuare a sostenere le spese elevate di manutenzione. Si sta parlando di ben 500 Sae». C’è anche chi si approfitta del Cas. «ll 31 dicembre è scaduto il termine per la presentazione dei progetti. La fine dei lavori segna anche la conclusione del sostegno pubblico. Così per continuare a ricevere il contributo c’è chi rallenta il cantiere». Furbizie e abusi sono sempre l’altra faccia delle ricostruzioni infinite. La storia italiana di questi drammi, d’altra parte, è ricca di precedenti.

© Riproduzione Riservata