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Punizione alla pachistana

Punizione alla pachistana

Si chiama «Karo kari»: è la barbarie dell’islam radicale che in quel Paese prevede l’omicidio di chi non accetta di sottomettersi al «volere di Allah». Com’è avvenuto per la giovane Saman Abbas, condannata dalla famiglia per il suo rifiuto di nozze forzate. Un fenomeno, quello dei matrimoni obbligati, accettato – e mai denunciato – da questa comunità (circa 120 mila persone) presente in Italia.


«Un lavoro fatto bene». Ecco come hanno liquidato in famiglia l’omicidio di Saman Abbas, la diciottenne che non ne voleva sapere di matrimoni combinati e usanze che non capiva. Ecco come uccide l’Islam più retrogrado e radicale, quello incastonato tra i deserti e le aspre montagne del Pakistan. Dove ogni anno circa mille donne vengono uccise per mano dei propri padri, fratelli, zii – persino delle madri. E cinque volte tante sono le vittime di questa barbarie culturale nel mondo.

La chiamano «Karo kari»: una tradizione la cui pratica prevede espressamente l’uccisione di colei o colui che, con il proprio comportamento «immorale», rifiuta di sottomettersi al volere di Allah. O meglio, della famiglia. Perché in questa vicenda la religione c’entrerebbe poco, e molto l’arretratezza di certi individui, i cui atti tribali affondano le radici in costumi di popolazioni aliene da ogni rispetto per le culture altrui. Una minoranza, ma la cui attitudine spicca per ferocia.

Lo ha ribadito l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii), a poco più di un mese dalla scomparsa di Saman, avvenuta nel reggiano il 30 aprile scorso: indignata dalla vicenda di Novellara, l’Ucoii ha lanciato una fatwa sull’illiceità dei matrimoni forzati nell’Islam. «Nessun tipo di imposizione può essere usata in fatto di matrimonio e che i contratti di matrimonio forzati non hanno alcuna validità» dichiara citando il Corano e alcuni «Hadith», i racconti sulla vita del Profeta.

Ma non può essere sufficiente l’indignazione di fronte a gesti come questi. Anche perché il fenomeno appare accettato tra la comunità indo-pakistana di religione islamica, che in Italia è una delle maggiori. I numeri della diaspora variano di continuo: nel 2003 il governo italiano stimava una cifra intorno alle 30 mila persone, mentre l’ambasciata pakistana di Roma già nel 2002 parlava di almeno 50 mila pakistani presenti sul nostro territorio. Nel 2017 le stime sono state riviste al rialzo; fino a che, nel 2020, l’Istat ne ha censiti 121.609 tra quelli registrati (il 2,4 per cento dei cinque milioni di stranieri ufficiali in Italia, che rappresentano l’8,5 per cento della popolazione residente). Il fenomeno è dunque in crescita, nonostante il Pakistan abbia conosciuto un veloce sviluppo, oggi consolidato grazie a un accordo da 60 miliardi di dollari cinesi per fare del Paese un «hub» sulla nuova Via della seta. Questo contribuisce a fare della repubblica islamica una nazione economicamente solida nel contesto regionale. Oltre che una potenza nucleare.

Semmai è l’insicurezza sociale a spingere ogni anno migliaia di famiglie a migrare verso l’Europa. Una situazione tragica, quella in patria, dovuta tanto a un governo illiberale quanto agli attentati di matrice jihadista che colpiscono di continuo la popolazione civile; quanto ancora dalle tensioni con l’India, che nella regione contesa del Kahsmir vede riprodursi da 70 anni una guerra a singhiozzo per il suo controllo.

Ma soprattutto c’è da considerare la pessima influenza dell’Afghanistan dei talebani, che premono dal confine meridionale per reclutare sempre più giovani da immolare nella loro «guerra santa» al progresso. Mentre, a frotte, coloro che non si sottomettono ai talebani fuggono tra le braccia di Islamabad. E il governo pakistano non riesce più a gestire il continuo afflusso di profughi attraverso le montagne: le stime parlano di 1,3 milioni solo tra i migranti registrati. Ma sarebbero almeno il doppio coloro che preferiscono vivere in miseria nel quinto Paese più popolato al mondo (210 milioni di abitanti), piuttosto che diventare contadini schiavizzati nelle immense coltivazioni d’oppio. Quelle regioni impenetrabili che fanno dell’Afghanistan l’internazionale della droga mondiale (da qui proviene il 90 per cento dell’eroina del pianeta).

Saman, con i suoi 18 anni e la sua voglia di normalità, non sapeva niente di tutto questo. E non sapeva nemmeno che in Pakistan il matrimonio forzato è illegale. Ma, inconsapevolmente, portava il peso di una simile eredità culturale. Un peso che l’ha travolta con il «clan Abbas» che ha dovuto lavare l’onta di una parente che ambiva a una vita all’occidentale. O magari desiderava solo scegliere liberamente. Che Saman temesse per la propria vita è stata sempre una certezza.

Il vero fidanzato, il ragazzo che lei aveva scelto, lo ha spiegato ai Carabinieri. «Se non mi faccio sentire per più di 48 ore avverti le forze dell’ordine…» era stata la sua ultima considerazione. Poco dopo, lo zio e due cugini le hanno portato via la vita, mentre i genitori sono volati in Pakistan facendosi beffe delle autorità italiane. Tanto da spingere il padre a dichiarare: «È in Belgio, al mio ritorno in Italia chiarirò tutto». Quello stesso padre che, alla notizia del «lavoro fatto bene», però avrebbe pianto. Come a dire che la fine della giovane era scelta obbligata. Perché l’onore viene prima di tutto. Per la legge di Dio. Anzi no, per una consuetudine idiota e folle. Che fa del Pakistan il Paese con il più alto numero di delitti d’onore pro capite documentati al mondo.

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