Home » Attualità » Cronaca » Morto Graziano Mesina, storia del bandito sardo diventato boss e simbolo di un epoca

Morto Graziano Mesina, storia del bandito sardo diventato boss e simbolo di un epoca

Morto Graziano Mesina, storia del bandito sardo diventato boss e simbolo di un epoca

Aveva 83 anni e si trovava nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo. Identikit del bandito, re delle evasioni e dei rapimenti diventato boss e narcotrafficante.

La notizia della sua morte sblocca una serie di ricordi in molti boomer che all’epoca delle sue imprese erano ragazzini. Dalla notte dei tempi torna il suo volto segnato di un tempo in molte foto in bianco e nero. Graziano Mesina oggi fa quasi tristezza. Comincia bandito, finisce boss. Ma in fondo il bandito è tale, bandito buono o bandito sociale secondo la mitologia che appartiene a tutte le latitudini e a tutti i tempi, anche quando perde l’autenticità delle sue radici popolari e nelle cronache giudiziarie acquista il volto scontato dei furfanti ordinari.

Nato a Orgosolo nel 1942, aveva iniziato la sua ‘carriera’ da adolescente, con il primo arresto a 14 anni. Nel 2004 aveva ottenuto la grazia dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi poi revocata dopo una nuova condanna a 30 anni. Dal dicembre del 2021 si trovava in carcere per scontare 24 anni ricalcolati sulla condanna a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Prima di essere catturato a Desulo (Nuoro), aveva passato un anno e mezzo in latitanza. Era stato arrestato e condotto prima nel carcere nuorese di Badu ‘e Carros, poi da due anni era rinchiuso in quello milanese di Opera.

Mesina alla fine era tornato dietro le sbarre per traffico di quella droga che da bandito buono diceva di odiare. È stato in galera per più di 45 dei suoi 83 anni, 9 ai domiciliari o in libertà vigilata, e 5 di latitanza con le ben note parentesi giornalistiche degl’incontri nel profondo della Sardegna con il campione della macchina da scrivere, Indro Montanelli, cinicamente affascinato da briganti, dittatori e guerriglieri. Mesina boss non è diverso dal Mesina bandito, dal Mesina amico degli 007, dal Mesina mediatore nei sequestri di persona dopo essere stato sequestratore, dal Mesina che rivendica (anche in questo caso in aderenza a un immaginario banditesco consolidato) un senso suo di giustizia e ingiustizia che gli fa ammazzare un assassino per vendicare non solo la vittima ma gli innocenti condannati al suo posto, dal Mesina che libera il figlio di un sequestrato infilandogli in tasca mille lire per prendersi un gelato. Il boss, la parte cattiva, la faccia disgustosa della medaglia, fa parte dell’uomo. Il bandito buono è cattivo. Il bandito cattivo è buono. Mesina è un reduce, appartiene a quel mondo in cui i valori sono capovolti ma sono valori. Al mondo contadino. Al mondo della Sardegna che è un mondo a parte.

La cronaca ci riserva ogni tanto queste parentesi di letteratura. Banditi che sono protagonisti di romanzo. Anche se lo squallore incalza pure lui. Ecco perché non piace il modo facile di tanti di raccontare la degenerazione del bandito in boss. Fu geniale da parte sua inventarsi una seconda vita da guida per i turisti tra Barbagia e Gennargentu.

Conosciuto come la Primula rossa della Sardegna, il suo nome è impresso nella mente degli italiani per due cose: le evasioni, ben 22 di cui dieci portate a segno e il sequestro del piccolo Farouk Kassam di cui lui ha ricoperto il ruolo di mediatore.  

Mesina è il penultimo di undici figli di un pastore. Il suo soprannome era Gratzianeddu. Per Gratzianeddu i guai iniziano già nell’adolescenza.In quarta elementare prese a pietrate il maestro e dovette lasciare la scuola per andare in campagna come servo pastore. Il suo primo arresto è nel 1956 all’età di 14 anni per porto d’armi abusivo essendo stato trovato in possesso di un fucile calibro 16 rubato. 

Nel maggio del 1960 venne arrestato nuovamente per aver sparato in luogo pubblico. Nel gennaio del 1961 Graziano Mesina venne scarcerato. Il 24 dicembre dello stesso anno, in un bar di Orgosolo, il pastore Luigi Mereu, zio di uno degli accusatori dei Mesina nella vicenda Crasta, venne colpito da alcuni colpi di pistola e ferito gravemente.
Per il fatto venne accusato e arrestato Graziano Mesina, poi condannato a sedici anni di carcere. Venne rinchiuso nel carcere nuorese di Badu ‘e carros. Ma dal carcere di Nuoro fu inviato al Tribunale di Sassari per rispondere di un tentato omicidio ai danni di un vicino di pascolo, vicenda avvenuta tempo prima nelle campagne di Ozieri.
Qui il confinante gli aveva ucciso la cagna Meruledda, custode del gregge, sulle prime si era giustificato dicendo di averla scambiata per una volpe, ma in seguito cambiò versione sostenendo che gli avesse rubato dell’uva. Mesina allora squartò il cane per vedere se avesse mangiato uva, ma non se ne trovò, quindi lo malmenò. Durante il trasferimento per il conseguente processo, riuscì a liberarsi dalle manette. Alla stazione di Macomer, saltò dal treno e scappò, ma fu catturato poco dopo da alcuni ferrovieri

Il 6 settembre riuscì ad evadere dopo essersi fatto ricoverare nell’ospedale S. Francesco di Nuoro scavalcando il davanzale di una finestra e calandosi lungo un tubo dell’acqua nel quale rimase nascosto per tre giorni. Rimase in montagna latitante per tre mesi.

Nel gennaio del 1963 tenta l’evasione dal carcere di Nuoro, ma viene scoperto. Dopo un periodo nel carcere di Alghero, viene trasferito nel carcere di Porto Azzurro. Nell’estate del 1964 Mesina è atteso da un processo in Sardegna. Tentò la fuga da una toilette del treno in corsa, ma venne catturato poco dopo.

Secondo quanto detto dallo stesso Mesina, in realtà si consegnò spontaneamente per non creare problemi al carabiniere che lo aveva in consegna.

Venne trasferito a Volterra dove si finse pazzo e riuscì ad essere ricoverato nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Anche qui progettò la fuga, ma senza fortuna. Verso la fine del 1964 venne ancora trasferito, questa volta a Viterbo, dove nuovamente tentò di evadere e dal quale venne trasferito a Spoleto.

Anche a Spoleto tentò la fuga, ma venne scoperto.  Trasferito a Sassari per un processo, tentò di aprire un buco nel pavimento del treno, ma non riuscì a fuggire. L’11 settembre del 1966, mentre scontava la detenzione nel carcere S. Sebastiano di Sassari riuscì a compiere una delle sue più famose evasioni. Insieme al compagno di prigionia Miguel Alberto Asencio Prados Ponte, un giovane spagnolo disertore della Legione Straniera che, fuggito dalla Corsica, arrivò in Sardegna e venne arrestato a Cagliari per furto di automobile,  riuscirono a fuggire scalando il muro del carcere alto 7 metri e gettandosi sotto nella via centrale di Sassari.

Una volta fuori dal carcere si fecero portare da un taxi a Ozieri, e iniziò una lunga attività criminale della coppia. Nella zona di Golfo Aranci rapirono il proprietario terriero Paolo Mossa. Successivamente Mossa venne liberato dopo la promessa che avrebbe pagato il riscatto.

L’11 maggio 1967, a Nuoro, travestiti da poliziotti, finsero un blocco stradale e rapirono Peppino Capelli, un grosso commerciante di carni. L’ostaggio venne rilasciato dopo che la famiglia versò come riscatto 18 milioni di lire.

© Riproduzione Riservata