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La mafia albanese vuole tutto

La mafia albanese vuole tutto

In silenzio occupa i territori lasciati vuoti da altre organizzazioni malavitose in Italia. E fredda a colpi di pistola chi non si piega al suo disegno. La criminalità del Paese delle aquile ha alzato anche il tiro dei suoi business, passando dal traffico di tabacchi a quello ben più remunerativo della droga. Dove si allea con la ‘ndrangheta.


Avanza in gran silenzio la mafia albanese: riempie i vuoti lasciati dalle storiche organizzazioni malavitose, occupa spazi e territori. E regola i propri conti. Con più di qualche morto lasciato sul terreno, che ora sta portando gli investigatori a ricollegare fatti ed eventi con un unico filo rosso. A partire da un omicidio di gennaio 2020. A Roma freddarono per strada, in via Gabrio Casati, quartiere Nuovo Salario, Gentian Kasa, 45 anni, quattro colpi di revolver al torace. Poi, l’ultimo alla testa, per finirlo. Erano gli ultimi giorni da scontare della sua condanna per droga a Rebibbia e il magistrato gli aveva concesso la semilibertà. Era uscito di casa per tornare in carcere, come faceva tutti i giorni. Sempre allo stesso orario. Che i killer conoscevano. Gli investigatori lo accusavano di essere uno dei corrieri del traffico internazionale sull’asse Grecia-Italia. Non era uno spacciatore da quattro soldi, insomma.

Come Selavdi «Simone» Shehaj, 38 anni. Quando è scattata l’azione dimostrativa era sulla battigia della spiaggia di Torvaianica. Due pistolettate alla nuca e restò lì, con i piedi nell’acqua. Assassinato a sangue freddo davanti a centinaia di bagnanti. Un agguato in piena regola. Come solo la criminalità organizzata sa fare. A quella sparatoria di domenica 20 settembre 2020 chi studia i fenomeni criminali dà una lettura ben precisa: la mafia albanese ha alzato il tiro sul controllo del territorio. E può permettersi di uccidere senza chiedere il permesso a realtà della malavita storicamente presenti sul territorio.

L’indagine della Procura antimafia di Roma ipotizza un regolamento di conti. Ma quella di Torvaianica è stata solo l’azione più eclatante. Non l’unica. Gli albanesi si stanno ponendo come leader non solo nel contrabbando di tabacchi, il loro settore storico, che vede la base operativa in Puglia. Le ultime inchieste giudiziarie lo dimostrano, siamo di fronte a un salto di qualità. Nella capitale, per esempio, hanno conquistato interi quartieri: Ponte Milvio, Primavalle, Ostia, San Basilio. Dove vanno a braccetto con la ‘ndrangheta.

Gli albanesi sono saltati fuori perfino nell’inchiesta sull’omicidio dell’ultrà laziale Diabolik – all’anagrafe Fabrizio Piscitelli – ucciso il 7 agosto 2019 con un colpo alla testa mentre sedeva su una panchina di via Lemonia, nel Parco degli acquedotti. E c’è chi ipotizza un movente legato a probabili soffiate sui traffici di questa criminalità emergente (che non perdona). C’è una coincidenza: il 1° agosto la Squadra mobile di Roma con l’operazione Aquila nera ha frenato le mire espansionistiche di cinque albanesi che per i magistrati antimafia sono «un’organizzazione dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti di importazione e successiva distribuzione di ingenti quantitativi di cocaina».

A guidarli c’era Lulzim Daiu, «capo e organizzatore», che coordinava «i rapporti tra i detentori dello stupefacente all’estero e i corrieri incaricati del trasporto e della successiva distribuzione sul territorio italiano». Sei giorni dopo Diabolik è stato assassinato. Gli affari della gang albanese, invece, sono andati avanti fino all’8 gennaio, quando con la seconda parte di Aquila nera sono finite in carcere altre quattro persone. I magistrati romani, guidati dal procuratore Michele Prestipino, scavando nel passato di Diabolik hanno scoperto che aveva relazioni con il numero uno degli albanesi a Roma, Dorian Petoku, fino all’arresto di quest’ultimo in Albania nel 2018. E lo stesso Piscitelli avrebbe avuto rapporti anche con Arben Zogu detto Riccardino, cugino di Petoku, picchiatore in stretti rapporti con i boss di camorra, tanto che lo scorso giugno gli sono stati confiscati beni in parallelo con un gruppo di casalesi.

A Roma, dunque, la mala albanese è riuscita a farsi rispettare. E anche nella Tuscia, dove, grazie al pentimento di Sokol Dervishi, si è scoperto che la potenza della ‘ndrangheta si è saldata con un patto criminale alla ferocia degli albanesi. A capo c’era Ismail Rebeshi, considerato il più grande trafficante di droga nella zona di Viterbo. Con i calabresi, oltre al mercato della droga, gli albanesi si sono spartiti il controllo dei compro oro e dei locali notturni. E un’altra conferma dello spazio che si sono conquistati arriva dall’area a cavallo tra Calabria e Basilicata.

Il 15 dicembre la Procura antimafia di Potenza ha fatto scattare le manette ai polsi di 18 indagati per traffico internazionale di droga. E se a capo dell’organizzazione c’era Rocco Russo, in carcere dal 2018 e al vertice di un clan del Metapontino, tra i colonnelli e i gregari c’era più di un albanese. Il procuratore Francesco Curcio e la pm Anna Gloria Piccininni con la loro inchiesta hanno fotografato «l’altissima presenza criminale nella zona». E confermano «la pericolosità della mafia albanese, che è diventata una delle più forti in Europa».

Lo snodo cruciale è però il mare Adriatico, storica rotta per la penetrazione in Europa della droga. Lì, come ha dimostrato l’inchiesta denominata Kulmi, gli albanesi controllano flotte di potenti motoscafi con i quali la droga viene spostata verso Montenegro e Bosnia. Ma nel resto d’Italia la situazione non è diversa. «Le organizzazioni criminali albanesi hanno soppiantato i gruppi serbo-montenegrini, operando come veri e propri broker, importando, grazie a enormi disponibilità economiche, grossi quantitativi di cocaina direttamente dalla Colombia, destinati a essere distribuiti sul mercato europeo» ha denunciato la Procura nazionale antimafia.

Anche a Lecce il mercato della droga ha fatto saltare gli equilibri. Un’ordinanza di custodia cautelare ha svelato che «chi non rispettava le regole doveva pagare, anche con la vita». È scritto nero su bianco dal gip Simona Panzera che descrive il metodo mafioso di un clan locale. Tra le carte è emerso il «mandato a uccidere» Genny l’albanese, soprannome di Shkelzen Pronjaj, colpevole secondo la gang pugliese di essersi impossessato di un ingente quantitativo di droga nascosta in un garage a San Foca.

Ma c’è un’altra impronta inquietante dei clan albanesi: nell’uccisione dei coniugi albanesi Shpetim e Teuta Pasho, scoperto nelle settimane scorse a Firenze. Mentre è in carcere Elona Kalesha, accusata dell’omicidio e dell’occultamento dei cadaveri dei coniugi Shpetim e Teuta Pasho, genitori del suo ex fidanzato Taulant, stanno emergendo sempre più elementi che collegano la donna a «un circuito criminale di relazioni strette con persone con notevole calibro delinquenziale».

Insomma, mafiosi. Che probabilmente conoscevano anche Taulant, accusato di traffico internazionale di stupefacenti e per il quale le porte del carcere di Sollicciano si aprivano spesso. Finché, durante un periodo di arresti domiciliari, non è evaso e scomparso. Ha cambiato cognome e si è spostato in Svizzera per sfuggire alla giustizia italiana. E probabilmente, sospettano gli investigatori, anche al «tribunale» della mala albanese.

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