Le zone del sisma sono il caso più drammatico. Ma da Nord a Sud la «spina dorsale» del Paese perde ogni anno abitanti e storia. Le Marche hanno perso 10.000 abitanti. Oltre 1.200 chilometri di montagna che corrono dal Colle di Cadibona alla Sila e fino nell’Appenino Siculo. Dieci anni fa ci abitavano 10,4 milioni, ora poco più di 9.
Nicola Zingaretti dal conclave di Contigliano, in un’antica abbazia del Reatino, da segretario del Pd lancia una parola d’ordine: «Stiamo ricostruendo un progetto credibile per il Paese». Ma da presidente della Regione Lazio, Zingaretti la ricostruzione del terremoto del 2016 non l’ha neppure iniziata. Il Centro Italia, tra Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo è ancora un deserto di macerie.
Alla mancata ricostruzione si aggiunge lo scavare tra quel poco che resta delle comunità, perché stanchi di promesse, deportati sulla costa, privi di ogni prospettiva, gli abitanti hanno abbandonato i paesi: i giovani restano sulla costa, gli anziani non hanno più la forza di vivere sulle loro montagne.
La diaspora dei terremotati è la spia rossa accesa sull’Appennino: si rischia la desertificazione della «spina dorsale» dell’Italia. Che il sisma del 2016 ha reso esplicita. Solo le Marche hanno perso in tre anni oltre 10 mila residenti nelle zone terremotate. Dai comuni del cratere che rappresentavano il 22 per cento di tutta la popolazione della regione è scappato il 58 per cento dei residenti. Il motivo? Non c’è futuro. E se «domani» in quest’area è una parola abolita, la prospettiva è incertissima lungo tutti i 1.200 chilometri di montagna che corrono dal Colle di Cadibona alla Sila e oltre fino nell’Appenino Siculo. Ci abitavano 10,4 milioni di persone, ma il calo demografico degli ultimi due anni è stato pesantissimo: se ne sono andati quasi in mezzo milione. Fino al 2017 gli immigrati, all’incirca 650 mila, avevano compensato la perdita di residenti, ma oggi se ne vanno anche loro. Il rischio è di impoverire tutto il Paese. Lì, come ha certificato il primo Atlante analitico dell’Appennino, coordinato da Domenico Sturabotti e redatto dai ricercatori della Fondazione Symbola, creata e presieduta da Ermete Realacci già deputato del Pd e a capo di Legambiente, si produce il 14 per cento del Pil pari a 203 miliardi all’anno pur avendo solo il 17 per cento della popolazione nazionale. È una gravissima emergenza di cui pochi si curano.
Per capirlo ripartiamo dal dramma del terremoto di tre anni e mezzo fa. Ad Amatrice – 237 morti per la scossa – tutto è rimasto com’era e dov’era: per terra. Lo stesso ad Accumuli – 11 morti – e così nelle Marche ad Arquata del Tronto – 51 le vittime – e a Pescara Picena. Nelle Marche la devastazione è stata immensa: dopo la scossa del 24 agosto ci furono quelle tremende del 24 e del 30 ottobre fino a 6, 5 di magnitudo. E il disastro si tocca con mano: tra le province di Macerata, Fermo e Ascoli si contano 30 mila sfollati.
Ci sono città millenarie cancellate: Visso, Camerino, Sant’Angelo sul Nera. A Norcia, in Umbria, viene giù la basilica del santo patrono d’Europa, San Benedetto, e tutta la Val Nerina sembra come schiacciata. Così in Abruzzo. E in carica, allora, il governo di Matteo Renzi che prometteva: ricostruiremo tutto, avrete le abitazioni d’emergenza entro l’inverno. Le casette – costate ognuna come un appartamento ai Parioli – sono arrivate dopo oltre due anni e già fanno acqua; al «comando» dell’emergenza sisma si sono avvicendati tre commissari straordinari: Vasco Errani, Paola De Micheli ora promossa ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paolo Farabollini professore di Geologia, ora scaduto ma senza successore. Ma la ricostruzione non è mai partita. Il 15 gennaio, 70 sindaci marchigiani riuniti a Roma hanno detto: basta ora restituiamo le fasce tricolori. E se nel decreto Milleproroghe non ci saranno le soluzioni e l’avvio vero della ricostruzione, sono 8 mila i primi cittadini pronti a scendere in piazza. Lo ha annunciato chiaramente al viceministro dell’Interno Vito Crimi il presidente nazionale dell’Anci, Antonio Decaro.
I numeri dicono che su 22 miliardi di danni sono stati erogati a oggi 245 milioni, non uno dei progetti infrastrutturali è partito, su 63 mila edifici da sistemare ne sono stati aggiustati 4 mila e ci sono ancora 6 mila sfollati per i quali tra due mesi scadrà ogni sussidio. Sono fallite centinaia di imprese edili perché lo Stato non le paga per i lavori, migliaia di aziende agricole hanno ancora gli animali sotto i tendoni, gli edifici pubblici sono tutti inagibili così gli ospedali, il turismo non c’è più. Fa amaramente sorridere sentir dire che «bisogna ripartire dalle scuole». Le poche che sono state ricostruite con le donazioni, come quelle della Fondazione Andrea Bocelli, rischiano di non avere alunni. Ci sono anche esempi straordinari, come quello della gente di Potenza Picena, che rimasta senza chiesa, ha acceso un mutuo collettivo per restaurarla e paga le rate con l’elemosina, ma molte comunità si sono «dissolte». L’Abruzzo ha perso nelle zone terremotate oltre 6 mila abitanti, l’Umbria un migliaio, Amatrice, Accumuli e la montagna reatina – là dove il Pd è andato in ritiro spirituale – oltre tremila.
Ma non sono solo queste le crisi acute. In Cilento sono 50 mila i residenti in meno, scappati in gran parte dalla montagna. In Calabria, dove la popolazione montana è la più numerosa di tutto l’«arco», si sono persi 14 mila residenti, sull’Appennino parmense a Berceto il battagliero sindaco Luigi Lucchi parla di «genocidio della montagna». Da Scoppio e Cancelli in Umbria a Pesche in Molise e Faraone in Abruzzo, da Elcito nelle Marche a Brancaleone in Calabria fino a Brugosecco e Filettino in Liguria s’allunga la lista dei paesi fantasma.
Ermete Realacci però si batte per l’Appennino: la pone come emergenza nazionale, ma indica anche esempi virtuosi come Santo Stefano di Sessanio in Abruzzo o Pentedattilo nella Grecanica calabrese, paesi risorti grazie al turismo sostenibile. Insieme a Fabio Renzi, segretario generale di Symbola, Realacci ha rilanciato il progetto Ape – Appenino parco d’Europa – perché lì è custodita una straordinaria biodiversità, perché l’Appennino è il cardine dell’ecosistema europeo, perché in Appennino si produce e con una qualità assoluta: dall’artigianato d’arte alle industrie più innovative fino ai grandi prodotti dell’agroalimentare. Il 51 per cento delle Dop italiane, 149, è fatta in Appennino. Il sociologo Aldo Bonomi ha dedicato molti studi a questi monti teorizzando tra l’altro che le imprese più innovative hanno – come i salmoni – risalito la corrente spostandosi dalle aree congestionate delle coste verso le aree interne. Ora si rischia però che quel flusso diventi riflusso.
Bonomi indica possibili percorsi. In una ricerca che ha svolto con la fondazione Enrico Mattei dell’Eni in val Camastra in Basilicata, teorizza: «Il margine si fa centro. Le condizioni che rendono possibile lo sviluppo locale fanno di questi territori possibili “centri”, e non margini, in virtù di risorse (paesaggio, risorse naturali e culturali, asset comunitari) che stanno al centro di un nuovo ciclo di sviluppo laddove si connettano con i saperi e i linguaggi della modernità (digitale, economia dei servizi, economia circolare). L’attuale fase economica, politica e sociale non si può interpretare nei termini dell’attraversamento (“tutto tornerà come prima”), quanto della metamorfosi».
Quella promessa fatta da Renzi di ricostruire tutto dov’era e com’era è forse «insostenibile». Almeno guardando al futuro da un piccolo borgo delle Marche. Si chiama Appennino, e dopo il terremoto è un deserto.
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