Lui è «Giacomino» del celebre trio con Aldo e Giovanni. Ma prima di diventare l’attore comico che conosciamo, ha passato 11 anni da infermiere nell’ospedale di Legnano. Una «vita precedente» talmente intensa che raccontarla in un romanzo tragi-comico, alla fine, è stato inevitabile.
Prima del palcoscenico c’è stata la corsia, con la stanza degli infermieri a metà del reparto di Medicina II dove, soprattutto di notte, quando suona un campanello «l’unico modo per zittire quel rumore assordante è correre nel minor tempo possibile al letto del malato che chiama». Di corse, quando lavorava all’ospedale di Legnano, l’infermiere Poretti ne ha fatte tante. Prima di diventare il «Giacomino» del trio comico Aldo Giovanni e Giacomo, ha passato 11 anni a rispondere alle richieste dei pazienti, a pulirli, fare iniezioni, somministrare medicine, cambiare le flebo… Farli chiacchierare quando ne avevano voglia, stargli vicino quando stavano male. Il Covid-19 a quell’epoca non c’era ancora, quei corridoi non erano trincee dove si rischiava la pelle. Ma un ospedale, sia pure piccolo e di provincia, è un moltiplicatore formidabile di storie, a lieto fine oppure no (spesso per niente). E a un certo punto quelle esperienze chiedono di essere raccontate.
Così Giacomo Poretti ci ha scritto un romanzo quasi autobiografico dal titolo Turno di notte (edito da Mondadori) pieno di episodi, vite, aneddoti, riflessioni. Con molto humour, perché è un comico. E con infinito rispetto e tenerezza verso chi sta male, perché «lavorare in un ospedale è una cosa che ti resta dentro per sempre».
Intanto, cosa le è venuto in mente di fare un mestiere così ingrato come quello dell’infermiere? È stato per caso, come per il suo alter-ego Sandrino, o ci ha pensato su?
No, è stato davvero per caso. Da bambini magari sogniamo di diventare astronauta, o pilota, poi la vita decide altrimenti, le «porte scorrevoli» che ci si aprono sono tantissime. Mai avrei pensato di fare un lavoro simile. Ma poi ci sono rimasto.
Alla fine è diventata una scelta.
Sì, perché dall’ospedale in fondo puoi sempre scappare, se la cosa ti atterrisce. Scegli un’altra specialità, magari in uno studio dentistico, aspiri un po’ di saliva ma non vedi cose tremende…
Allora perché vale la pena?
Io l’ho vissuto come qualcosa di tragicamente miracoloso. Quando lavori in ospedale la cosa decisiva non appartiene né al «bello» né all’«interessante», è lo stare a contatto con la malattia e anche con i suoi esiti nefasti che è sconvolgente, ti sconquassa. L’aspetto relazionale con le persone è ciò che ti resta addosso. Certo, poi apprendi tante nozioni, devi allenare la tua sensibilità perché quando riferisci al medico, anche un tuo sguardo sul colore della pelle del malato è importante.
Come riusciva a non farsi coinvolgere troppo?
In quelle pagine ho cercato proprio di far capire il pericolo che si corre, sempre in bilico tra il cinismo e l’affezionarsi.
Lei l’aveva trovato un punto di equilibrio?
Penso di sì perché, come dice Sandrino, alla fine «i vecchini li ho sempre cambiati», benché si provi spesso la tentazione di dire «ma perché»?
«Saetta» ha fatto 1.765 turni di notte, anche lei? E un arresto cardiaco, l’incubo di ogni infermiere, le è mai capitato?
Sì, il numero è grosso modo quello lì. E di arresti cardiaci me ne sono capitati cinque. Non tutti finiti bene, però. Nel mio caso, due si sono salvati e tre no.
E in quei casi sfortunati, si è sentito in colpa?
Eh, c’è sempre questa fortissima sensazione di sconfitta che soprattutto i medici vivono, quante volte gliel’ho l’ho vista in faccia… Poi c’è la frustrazione di quando magari hai una malattia in cui si cerca di intervenire e però alla fine, pur con tutti sforzi, bisogna arrendersi.
Ha mai pensato «avrei potuto fare di più»?
Sempre, del resto è la domanda che si fa anche il comico: potevo migliorarla quella battuta? Avrei potuto far ridere di più?
Mai sofferto di «burnout»?
No, una volta non si parlava nemmeno di questa sindrome da esaurimento. Però il primo decesso l’ho sofferto proprio tanto. Me lo ricordo bene, era un signore di poco più di 50 anni, aveva una brutta malattia…
«Brutta malattia» sta per cancro?
Sì, gli infermieri tendono sempre ad affievolire una certa terminologia. Un retaggio un po’ del passato, il «lungo male»… Non mi dispiacevano quei termini, è un parlare più gentile. Certo, nasconde un po’ la verità, ma a volte la realtà è brutale, urticante. Va posta in un certo modo, e anche questo, il come dirla, è un altro tema dell’ospedale.
I medici a volte sono sin troppo bruschi, altre – lei nel libro li prende in giro – fanno i vaghi, usano paroloni astrusi di fronte ai malati e alle famiglie. Lei che ne pensa di loro, sinceramente?
Io ne ho un’ottima opinione perché è il mestiere più difficile del mondo. Ce ne sono tre così: il medico, il politico e il prete.
Il politico forse no, eh.
A farlo bene sì, invece. Io, caspita, ho quasi una venerazione per i medici, anche perché ne ho visti molti in difficoltà, a volte devi far piangere una persona, o famiglie intere, è tremendo.
Le sarebbe piaciuto indossare il camice?
Molto, io non ho mai studiato ma avrei voluto fare l’internista: è il cosiddetto medico generico che però deve sapere un’infinità di cose, è come un segugio che scopre la malattia.
Tra i tanti medici, c’era davvero un «dottor Brandina», quello che di notte si imbosca?
Be’, nel libro è un po’ esagerato, ma c’è sempre un dottor Brandina in corsia, lo sanno tutti, anche i medici.
Lei i pazienti li faceva ridere?
No, non avevo e non ho alcuna attitudine a far ridere chi sta male. Ho sempre pensato che chi va in ospedale non ha voglia di ridere.
Dall’infermiere al comico: è stato un modo per passare dal dolore alle risate?
Ma no. Si vivono più vite, il teatro era rimasta una passione, poi anche qua il caso: diventare caposala e smettere di fare i turni mi ha dato la possibilità la sera di frequentare una scuola di teatro.
Nella sua «seconda vita», le è successo di intervenire in un luogo pubblico dove qualcuno si sente male e c’è chi fa la classica domanda: «C’è un medico»?
Sì, ti viene istintivo, mi è capitato in incidenti stradali nei quali dai una mano, oppure i vicini di casa ti chiamano per fare una medicazione o togliere i punti e mi dicono: «Giacomo, verresti tu?».
Aldo e Giovanni le chiedono mai pareri o consigli medici?
Eh, è successo un paio di volte durante le tournée teatrali che Aldo si ferisse e dovevo fargli il richiamo dell’antitetanica, una gag meravigliosa perché lui è un «cagasotto» mondiale, Giovanni mi faceva da assistente e io lo rincorrevo con la siringa in mano.
Lei e la sua famiglia un anno fa vi siete ammalati tutti per il Covid. Sapere di medicina ha aiutato in quel frangente o era peggio?
In quel caso lì nessun medico al mondo sapeva di cosa ci si stava ammalando, forse adesso si inizia a saperne qualcosa di più, io non ero per niente rassicurato, non c’era nessuna cura certa, si andava a spanne… Anche ora non è che sia chiarissimo. Ho fatto tanti giorni con febbre molto alta, nel marzo 2020. Per fortuna il virus si è fermato lì e non è andato nei polmoni o da altre parti. E in questi due anni di pandemia ho provato molta pena vedendo le immagini degli ospedali in tv, era come stare in guerra.
Alla fine chi sono gli infermieri? Degli eroi, dei pazzi, degli sfigati?
Tutte e tre le cose insieme. Lavoro faticosissimo, ai limiti della sopportabilità certe volte, e adesso si rischia pure di morire. Ma ho incontrato tanti giovani laureati e molto motivati per questo mestiere, meno male va’.
Lei nel libro mette in scena un monologo irriverente e un po’ scazzato rivolto a Dio. Al quale rimprovera il silenzio. Lei crede? E perché Dio fa finta di niente?
Io ci credo, sì. E ho cercato di raccontarla nel romanzo com’è fatta la fede, di dubbi, domande, arrabbiature. Tanti filosofi prima di me hanno affrontato il problema di questa «assenza». Appartiene, penso io, al fatto che uno deve stare là e l’altro deve stare qua.
Ma se lui sta là a far finta di niente, noi cosa ce ne facciamo?
No, non è vero che fa finta di niente. Lei come lo sa? Se Dio risolvesse tutto saremmo dei pupazzi, dei topi da esperimento, invece siamo totalmente liberi. È dentro questo mistero che Saetta chiede e impreca.
Se lei dovesse fare un’unica domanda a Dio, cosa gli chiederebbe?
Una sola? Ecco, io gli domanderei così: «È ovvio che ci vediamo tutti dopo… Vero?»