Arresti mancati, storie di corna, misteriose società estere, topi di appartamento, assegni bancari, avvocatesse con un passato da lap dancer e motel a ore. Sullo sfondo dell’omicidio della ventiseienne Chiara Poggi, massacrata il 13 agosto 2007, c’è anche questo. Il palcoscenico è la Lomellina, terra avara, ricca solo di risaie. In mezzo a questi campi acquitrinosi, un secolo fa, si formarono le prime squadracce fasciste. Ma qui, da tempo, la storia ha lasciato il passo alla cronaca e, in questo ambito, ogni giorno ha il suo piccolo o grande colpo di scena.
Mentre andavamo in tipografia, uno degli inquirenti ci ha confidato: «Siamo in una fase molto calda dell’inchiesta». Tv e giornali, più o meno velatamente, evocano a tutte le ore il classico tintinnar di manette sull’asse Pavia-Brescia: i pm che operano in riva al Ticino hanno rimesso sotto inchiesta Andrea Sempio, ipotizzando che sia lui il killer di Chiara. Quasi contemporaneamente, i magistrati della Procura della Leonessa d’Italia hanno avviato più filoni d’indagine, ipotizzando reati come la corruzione e il peculato: l’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, e il suo vecchio collega, Paolo Pietro Mazza, sono sospettati di avere «aggiustato» procedimenti penali anche in cambio di soldi. Uno dei fascicoli riguarda proprio la frettolosa archiviazione di Sempio del 2017, ma sotto osservazione ci sarebbero diverse altre presunte inchieste «pilotate». Il capitolo più scabroso, però, è quello che collega le mazzette all’istanza di proscioglimento per Sempio. La Procura di Brescia ha evidenziato movimentazioni bancarie anomale: il versamento a favore della famiglia Sempio di assegni per complessivi 43.000 euro da parte di alcuni parenti (30.000 provenienti dalla zia Silvia Maria […]) e i prelievi di contanti per 35.000 euro effettuati da Andrea e dal padre Giuseppe, «del tutto incongrui rispetto alle loro ordinarie movimentazioni».In un’annotazione gli investigatori sottolineano che il 15 marzo Venditti e la collega Giulia Pezzino «propongono richiesta di archiviazione al Gip». Scrivono anche che, dopo appena otto giorni, il gip Fabio Lambertucci, «accogliendo pienamente le osservazioni poste nella richiesta dei pm, emette decreto di archiviazione». Ovviamente per i magistrati non è vietato prosciogliere un sospettato. Ma Panorama ha scoperto che, in questa decisione, c’è davvero qualcosa che lascia perplessi, nonostante Venditti abbia più volte dichiarato di aver impiegato 21 secondi per capire che in quell’inchiesta non c’era ciccia. Infatti, due mesi dopo l’apertura del fascicolo, il 23 febbraio 2017, succede qualcosa di particolarmente strano. Gli inquirenti, in un atto inviato al giudice, si dicono pronti non ad archiviare, bensì ad arrestare «gli indagati». Peccato che appena 20 giorni dopo si rimangeranno tutto e chiederanno il proscioglimento.
Procediamo con ordine. Il 23 dicembre del 2016 Sempio viene iscritto sul registro delle notizie di reato con la contestazione dell’articolo 575 del codice penale, «omicidio volontario». Venditti e la Pezzino chiedono al gip Lambertucci di autorizzare un pacchetto di intercettazioni a tappeto. Il giudice le approva il 2 febbraio 2017. Otto utenze, sette cellulari e il fisso di casa Sempio, vengono poste sotto controllo per 15 giorni. Nel decreto si legge: «Attraverso la captazione dei commenti che sicuramente, dopo la notifica degli inviti a comparire, l’indagato condividerà con i propri parenti o interlocutori a lui vicini, possono essere raccolti elementi investigativi non acquisibili altrimenti». I carabinieri dell’aliquota di polizia giudiziaria, tra cui i marescialli Giuseppe Spoto e Silvio Sapone, oggi testimoni, eseguono il provvedimento. Le linee vengono attivate tra il 4 e il 6 febbraio 2017. Parallelamente vengono installate microspie e un localizzatore Gps sull’auto di famiglia, una Suzuki SX4 intestata a Giuseppe Sempio. I dispositivi restano attivi dall’8 al 22 febbraio. Quel giorno la polizia giudiziaria comunica la cessazione delle intercettazioni. Ma Venditti e la Pezzino, anziché depositare tutto il materiale, come prevede il codice di procedura penale, chiedono al solito gip «l’autorizzazione al ritardato deposito della documentazione relativa alle operazioni di intercettazione telefonica». Il motivo? «Essendo ancora in corso le indagini volte a meglio circostanziare le modalità esecutive dell’azione delittuosa, nonché all’identificazione di eventuali concorrenti del reato, dal deposito dei verbali, delle registrazioni e della documentazione può derivare grave pregiudizio alla prosecuzione delle indagini stesse, in quanto devono essere ancora completate le richieste di misura coercitiva a carico degli indagati». Avete letto bene: i pm, venti giorni prima dell’istanza di archiviazione, chiedono al gip di poter tenere coperte le proprie carte perché non hanno terminato di scrivere le proposte di arresto. Ma davvero quelle istanze erano in fase di stesura? E se lo erano, che cosa ha portato i magistrati a decidere un dietrofront così repentino? Se, invece, non era così, perché i pm hanno dato false informazioni al giudice e chiesto di ritardare il deposito delle captazioni? Che cosa giustificava tale mossa? Si cercava di «mettere a posto» le carte in vista di una richiesta di proscioglimento? A settembre, Spoto, a verbale, ha raccontato che avrebbe trascritto le intercettazioni solo parzialmente «perché il dottor Venditti disse che gli servivano subito per fare l’archiviazione». E non per richiedere un’ordinanza cautelare. Un punto fermo c’è: l’autorizzazione del gip al rinvio del deposito. A distanza di otto anni la Procura di Brescia ha iscritto sul registro degli indagati Venditti per corruzione in atti giudiziari. Un’accusa sdegnosamente respinta dal diretto interessato. Qualunque sia la verità, è, comunque, evidente che dietro all’omicidio di Chiara Poggi ci siano ancora troppe zone d’ombra.
Una vicenda torbida in cui il sesso è il collante che tiene insieme storie apparentemente distanti. Si è parlato di video erotici, materiale pedopornografico, di sex toys, di abusi sessuali consumati all’interno di un santuario, di tradimenti, prostituzione, di amanti collegati ad alibi traballanti, persino di incontri in hotel tra pm e investigatori.
E in questi intrecci particolari un ruolo centrale lo ha Francesco Marchetto, l’ex comandante della stazione dei carabinieri che ha condotto le prime investigazioni sul delitto. È con lui che Alberto Stasi è diventato il principale sospettato e Andrea Sempio è rimasto sullo sfondo. «Il suo nome? Mai sentito finché non lo hanno indagato» ha dichiarato l’investigatore a proposito di Sempio. Nelle comparsate televisive (non poche) racconta che, all’epoca, avrebbe voluto indagare le gemelle Cappa (le cugine di Chiara), ma che non glielo avrebbero permesso.
Però, Marchetto, quando dice che non sapeva chi fosse Andrea Sempio, potrebbe non contarla del tutto giusta. Il comandante di una stazione dei carabinieri di un paesone di circa 10 mila anime è come il prete o il sindaco, conosce praticamente tutti. Ma soprattutto è difficile ipotizzare che non conosca la famiglia della propria amante. C’è, infatti, un’inchiesta da cui risulta che avesse una relazione con Silvia Maria Sempio (ve la ricordate?), la stessa che, secondo i pm di Brescia, nel 2017, avrebbe consegnato 30 mila euro per permettere a suo fratello Giuseppe di racimolare il denaro necessario a «comprare» l’archiviazione per il figlio Andrea.
L’inchiesta in cui si parla della relazione è scabrosa e riguarda un vecchio locale di lap dance di Garlasco, l’Exclusive club. Nella sentenza i giudici affermano che «risulta ampiamente accertato» che all’interno del night «vi era la presenza di donne che adescavano i clienti ed esercitavano la prostituzione». Correva l’anno 2010. Le ragazze, ricostruisce il Tribunale, erano tante, «da 5 a 12» e una di queste è diventata assistente e praticante avvocato nello studio di Massimo Lovati, l’ex difensore di Sempio. I telefoni utilizzati dal legale sono intestati a lei e su una di queste utenze è passata una conversazione molto discussa, quella in cui Andrea dice all’avvocato, il 5 febbraio 2017, che «qualcosina si sta muovendo».
Secondo l’accusa, Marchetto «ometteva di segnalare all’autorità giudiziaria l’attività ivi svolta dai gestori e dalle ragazze, frequentando abitualmente quel locale». E non da solo. Lì avrebbe portato anche dei suoi conoscenti. Le spogliarelliste lo ricordano bene. Frida, in aula, afferma: «Franco era un cliente del locale. Lo frequentava con cadenza di circa due volte la settimana». E, così, Marchetto è finito nei guai. Da una relazione di servizio si apprende: «I militari della stazione Carabinieri di Garlasco, nel corso del controllo effettuato il 14 gennaio 2011, trovarono nel locale il maresciallo Marchetto, in quei giorni in licenza per malattia». E, stando ai suoi colleghi, l’ex comandante «non aveva segnalato la sua presenza nel locale per svolgervi attività info-investigativa».
Alla fine l’uomo rimedia, il 22 giugno 2013, in primo grado, una condanna (in abbreviato) a un anno e 4 mesi di reclusione per favoreggiamento della prostituzione, ma anche per peculato. Un’accusa, questa, che si collega ai Sempio. Infatti, la contestazione riguarda l’uso illecito di un dispositivo Gps e di una telecamera, impiegati da Marchetto per controllare il marito di una donna con cui intratteneva una relazione extraconiugale. Ed è, a questo punto, che la vita privata del maresciallo si mescola con le indagini. La signora in questione è, infatti, Silvia Maria Sempio, la zia di Andrea. Nella sentenza viene descritta come l’amante del maresciallo. Anche se la signora definisce il maresciallo solo un suo «vecchio amico» che conosce «da circa 13 o 14 anni». Cioè da prima dell’omicidio Poggi. Con gli inquirenti la donna aggiunge anche: «Ha frequentato per molti anni la mia famiglia, la mia abitazione e la nostra cascina». Eppure, in quel momento, Marchetto avrebbe ignorato chi fosse il nipote della sua amante.
Il giudice non sembra avere dubbi sul tipo di relazione intrattenuta dai due e, nelle motivazioni della sua decisione, specifica che il maresciallo avrebbe prestato il Gps «a Silvia Maria Sempio, con la quale da tempo intratteneva una relazione extraconiugale, per monitorare le infedeltà coniugali del marito». Il sottufficiale si è difeso spiegando che «quello era un prodotto di libera vendita, non uno strumento dei carabinieri». La zia di Andrea, invece, non ha mai negato e «ha raggiunto un accordo con il pubblico ministero sull’applicazione della pena».
L’inchiesta in cui si mescolano corna e investigazioni era iniziata in modo rocambolesco. Nel 2011 i carabinieri della Compagnia di Vigevano raccolgono la denuncia di un imprenditore agricolo di Garlasco, Amilcare Adami, il marito di Silvia Maria. Un uomo che all’apparenza vive una vita tranquilla: casa, campagna, un potente Hummer parcheggiato davanti alla sua cascina, la Crivellina di Scaldasole, dove si ritrova con gli amici per la caccia. Un posto frequentato dai carabinieri della stazione di Garlasco e anche da qualche ufficiale che arrivava da Vigevano. Marchetto era un habitué, anche perché era socio dell’uomo di cui aveva concupito la moglie. Una mattina di fine gennaio, sotto il sedile del suo fuoristrada, Adami scopre il dispositivo elettronico: «Notavo fuoriuscire dalla parte sottostante il sedile lato guida un rettangolo di colore nero dal quale avevano origine due fili», racconta ai militari. Sopra c’era la scritta «Gps». E dietro a quella scatoletta, si scoprirà, c’era sua moglie, Silvia Maria. Lo ammette lei stessa: «Avevo provveduto io a posizionare quel Gps e una videocamera».
La denuncia di Adami, presentata il 29 gennaio 2011, diventa la chiave per far riaffiorare una vicenda più vecchia, torbida e tutt’altro che privata: una storia che comincia dieci anni prima, travalica i confini e coinvolge società fantasma e investimenti mai chiariti. «Ho conosciuto Franco, il maresciallo Francesco Marchetto, credo tra il 1999 e il 2000», fa mettere a verbale Adami, «in quanto presentatomi dal maresciallo Roberto Costa, comandante della stazione Carabinieri di San Giorgio Lomellina». Con Marchetto nasce un’amicizia, fatta di cene, battute di caccia, ma anche affari.
«Nell’anno 2001 Franco mi aveva proposto di realizzare una società immobiliare per eseguire dei cospicui investimenti in Romania», ricorda l’imprenditore. «Per costituire la ditta avevo versato in contanti a Marchetto 25 milioni delle vecchie lire. Ognuno di noi era titolare per un terzo». Nel 2003 i tre soci affrontano insieme una trasferta in Romania che si trasforma in un B movie. Adami non vuole partire. Ma lo convincono ad andare la moglie e il maresciallo: «Entrambi mi dicevano ripetutamente che mi sarei dovuto portare fin lì per firmare delle carte e dei documenti». Arrivati ad Arad, l’avvocato locale dichiara, però, che non c’è nulla da siglare. L’imprenditore rammenta: «Mi spazientii con Marchetto chiedendogli per quale ragione mi avesse fatto andare fino a lì». Lo capirà velocemente.
La sera i soci e il commercialista di Adami vanno a cena con alcune ragazze, definite «intrattenitrici». «Marchetto, in modo quasi scherzoso, abbinava una ragazza a ciascuno di noi» e, a un certo punto, «mi invitava ad avvicinarmi e me ne presentava una» continua Adami. Il quale avrebbe, quindi, accettato di appartarsi con la giovane. Ma ecco il coup de théâtre che non ti aspetti: «Circa dopo una mezz’ora che mi trovavo in compagnia di questa donna», rammenta il denunciante, «sentii bussare alla porta della mia camera di albergo. Udii la voce di mia moglie che mi intimava con concitazione di aprire». È il disastro: «Comparvero davanti ai miei occhi Silvia Maria e mia cognata. Mia moglie aveva una macchinetta e scattava ripetutamente delle fotografie a me che ero vestito e alla ragazza nuda nel letto».
La mattina successiva, a colazione, Marchetto non sembrava, a giudizio di Adami, sorpreso per la presenza della consorte nello stesso albergo. «Dall’episodio accaduto in Romania», puntualizza con gli inquirenti l’imprenditore, «non ho più avuto rapporti con Marchetto». Adami rompe definitivamente i ponti con il maresciallo, chiude il «club di caccia» che aveva fondato con il carabiniere e altri amici e si concentra sull’azienda agricola. Gli zii di Sempio, probabilmente, sarebbero velocemente spariti dai pettegolezzi di paese, se i nomi dei due non fossero riaffiorati nelle indagini per l’omicidio di Chiara Poggi. In un’intercettazione del 2017, effettuata nell’auto del nipote, i carabinieri tornano a sentire i nomi di Amilcare e Silvia Maria, indicati come i parenti a cui chiedere aiuto per «pagare quei signori lì». Chiacchiere confuse che oggi hanno portato all’accusa di corruzione da parte della Procura di Brescia nei confronti di Venditti.
Nella richiesta di archiviazione presentata da quest’ultimo e dalla collega Pezzino il 15 marzo 2017 compare un altro personaggio degno di nota, Cesarino Mattavelli, oggi scomparso. Un attore non protagonista portato in scena dalla difesa di Stasi. Un testimone, Giampaolo Varesi, lo colloca, in atteggiamento sospetto, la mattina del delitto di Garlasco, a poca distanza dalla casa della ragazza. «Verso le ore 8 e15» si sarebbe trovato «con una bicicletta nera da donna lungo corso Cavour in direzione di via Pavia con una borsa e un piede di porco nel cestino». Per la Procura, però, quella testimonianza sarebbe stata «inficiata da pregiudizi di carattere personale» e, per questo, attribuì al teste «un risentimento dovuto a un furto subìto anni addietro». Nella richiesta di archiviazione Venditti e la Pezzino hanno definito il racconto su Mattavelli «un maldestro tentativo di individuare ancora una volta un colpevole alternativo». Ma nelle stesse pagine si legge che i carabinieri identificarono l’uomo e lo sentirono a sommarie informazioni (quando era già gravemente malato). Il sospettato, secondo i pm, non avrebbe «fornito alcuna circostanza utile a eventuali approfondimenti», ma avrebbe ammesso «di frequentare un’officina meccanica in via Pavia».
Per gli inquirenti, inizialmente, Mattavelli «non esiste se non nella fantasia del testimone», poi viene chiamato a testimoniare e collocato proprio nella zona del delitto. Viene identificato come persona che «svolgeva lavori saltuari», ma che, pur avendo «piccoli precedenti di polizia» (è definito «ladro di piccolo cabotaggio»), non sarebbe stato capace «di compiere un’aggressione violenta» come quella a casa Poggi.
Varesi aveva ipotizzato che Mattavelli avesse provato a introdursi nella villetta per il classico furto di appartamento, ma si sarebbe «trovato davanti Chiara in pigiama» e, per questo, l’avrebbe «ammazzata». Un’ipotesi che, a giudizio del gip, non si «incastrava» con le modalità di esecuzione dell’omicidio, poiché «non è risultata alcuna forzatura sulla porta d’ingresso di casa Poggi».
Ma se Mattavelli è rapidamente uscito dall’indagine, nel 2025 vi è rientrato prepotentemente Sempio, in compagnia di Venditti, l’uomo che lo aveva prosciolto e che, adesso, è accusato di corruzione in un procedimento parallelo a quello per omicidio. I magistrati di Brescia stanno passando al setaccio i movimenti finanziari dell’ex procuratore aggiunto per verificare se abbia incassato denaro illecito. Durante la perquisizione della sua residenza pavese sono stati «rinvenuti 9 orologi di pregio (di cui 3 Rolex, 1 Tiffany, 2 Cartier, 2 Jaeger-LeCoultre, 1 Baume Mercier), lasciati nella libera disponibilità della parte».
L’appartamento visitato dai finanzieri è di proprietà della moglie di Venditti, Elena Maria Galati, e il suo acquisto si collega a un’altra vicenda boccaccesca. La società venditrice è, infatti, la Cogeim di cui è socio Filippo Pozzi, il proprietario dell’hotel Riz, divenuto celebre perché in quella struttura si appartava con una pm citata nell’inchiesta bresciana il carabiniere Antonio Scoppetta, uno degli investigatori più vicini a Venditti. Il militare avrebbe ottenuto 34 pernottamenti con lo sconto che sono stati considerati dai giudici di Pavia una sorta di mazzetta. Per questo e altri episodi, a luglio, il militare è stato condannato a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Nell’albergo era un volto noto anche il maggiore in pensione Maurizio Pappalardo, pure lui sotto processo per corruzione, nonché sodale di Scoppetta e pure di Venditti. Era l’ufficiale a prenotare le stanze del Riz a tariffa ridotta.
Il proprietario dell’hotel, con noi, ha negato che la casa dove vive il magistrato sia stata venduta a prezzo di favore e ci ha spiegato di conoscere la coppia, perché la Galati è cugina della sua ex moglie. A febbraio Pozzi sarà sentito in Tribunale come testimone per spiegare gli sconti («Dieci euro in meno a camera» minimizza l’imprenditore) fatti a Scoppetta.
L’appartamento dove risiede Venditti è stato pagato 303 mila euro. L’immobile, 7,5 vani disposti su due piani, si trova in un palazzo storico vincolato, su cui il ministero dei Beni culturali non ha esercitato il diritto di prelazione. Metà del pagamento è stato effettuato con assegni bancari (e non circolari) datati 8 dicembre 2003 (sono stati emessi circa 2 anni e mezzo prima dell’atto di compravendita). L’altra metà è stata saldata con un assegno bancario non trasferibile da 148 mila euro «tratto su un conto corrente» della Banca popolare di Sondrio. Quest’ultimo versamento è stato inserito nel rogito a penna, probabilmente in prossimità dell’atto. Pozzi conclude: «Guardi, non c’è stata nessuna stranezza. Non mi ricordo nemmeno se Venditti fosse presente al rogito». Resta il fatto che anche in provincia di Pavia tutto sembra collegato. Dal sangue, dal sesso e dai soldi.
