Finalmente, grazie al lavoro di anatomo-patologi di Bari, sarà possibile ricostruire le ossa dei 27 militari trucidati e gettati in una fossa comune dai soldati di Tito, nel 1945. Con i 26 mila euro raccolti da Panorama, che ha seguito la vicenda, i resti saranno trasferiti a Trieste, dove l’esame del Dna ne accerterà le identità. Le famiglie avranno così una tomba su cui deporre fiori.
«Ogni giorno mi sono immaginata la scena straziante della loro fine. Giovani come noi massacrati a guerra conclusa» racconta a Panorama l’antropologa Alessia Leggio, che per otto mesi ha lavorato al «cold case» dei marò all’istituto di Medicina legale dell’Università di Bari. «Il pensiero era costante mentre rimettevamo assieme, come un puzzle, i poveri resti e si ricomponeva lo scheletro di questi ragazzi. I crani con i segni evidenti delle violenze a colpi di mazza ferrata ed i fori dei proiettili dell’esecuzione» spiega la giovane specialista.
Assieme a una squadra che assomiglia alle serie tv di successo sui medici legali sta componendo i resti della cassetta grigia, numero 1, con la stella della Repubblica. Cranio, ossa lunghe, vertebre della spina dorsale sul freddo tavolo metallico delle autopsie. Lo scheletro di uno dei 21 marò della X Mas e sei militi del battaglione Tramontana di Cherso, che nel 1945 furono trucidati dai partigiani di Tito e gettati in una fossa comune a Ossero, oggi in Croazia. Prigionieri di guerra inermi che si erano arresi, il 21 aprile a Neresine sull’isola croata di Cherso, vittime di violenze inaudite tornate alla luce.
Nel 2019 il Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, in collaborazione con le autorità croate, aveva finalmente riesumato dalla fossa di Ossero i resti dei soldati italiani. Le 27 cassette con su scritto «caduto ignoto», avvolte dal Tricolore, sono state trasferite con tutti gli onori al Sacrario militare di Bari dei 70 mila periti oltremare nella prima e seconda guerra mondiale. Gli esuli della Comunità di Lussinpiccolo hanno lanciato attraverso il sito di Panorama una raccolta fondi per identificare i marò e dare un nome e cognome ai resti. Grazie alle centinaia di donazioni, che hanno raggiunto i 26.138 euro, è partito il progetto con l’adesione dell’Università di Bari e Trieste, che hanno firmato lo scorso febbraio una convenzione con la Difesa.








Dopo la fase iniziale di composizione e analisi dei resti, il nome dei marò è più vicino. «Abbiamo compiuto il primo passo rimettendo insieme le ossa per stabilire età, razza, altezza e capire come sono stati uccisi» dice Francesco Introna, direttore dell’Istituto di medicina legale a Bari ed esperto in antropologia forense. Il cranio del caduto «ignoto numero 1» ha un buco quadrato di 4 centimetri per 4 e l’evidente foro di un proiettile. «Lo abbiamo trovato su tutti e pensiamo sia stata usata una mazza ferrata per finirli» dichiara Introna. «Non ci sono tracce di indumenti. Solo il bottone di una camicia. Significa che sono stati denudati prima di arrivare alla fossa». I marò devono avere scavato la loro tomba comune, a fianco di una chiesa, sotto la minaccia delle armi. Poi sono stati allineati sul bordo e probabilmente fatti inginocchiare prima dell’esecuzione. «Ci deve essere stata una sorta di fucilazione perchè abbiamo trovato lesioni di proiettile a livello della colonna vertebrale» aggiunge Maria Grazia Calvano, medico legale. «Poi il colpo alla base della nuca e appunto violenti fendenti in testa con una mazza ferrata, o qualcosa del genere, che ha sfondato il cranio delle vittime».
Le ossa «parlano» e raccontano di un ultimo oltraggio. «I corpi sono stati maciullati con un mezzo pesante, camion o cingolato. Forse per non farli riconoscere. È evidente dallo schiacciamento dei resti» precisa Introna, che ha partecipato alla riesumazione delle vittime delle stragi serbe in Kosovo. E aggiunge: «Non mi aspettavo l’accanimento con la mazza ferrata. E poi triturarli nel totale disprezzo dell’essere umano. L’Unità X Mas? Erano prigionieri e dovevano venire trattati come tali. È stato un crimine di guerra».
Il progetto non ha alcun risvolto politico o revisionista. Non si tratta di assolvere o riabilitare la controversa X Mas, ma solo «di ridare l’identità ai resti di un caduto ignoto perchè ognuno ha diritto a una tomba con un nome e cognome, a cominciare dai familiari» osserva Calvano. La squadra di Bari ammette «l’emozione non solo dal punto di vista professionale, ma per la ricostruzione di un piccolo pezzo di storia dimenticato, che a noi giovani è stata raccontata troppo poco».
La prima fase del progetto di identificazione si è conclusa con una corposa relazione di 780 pagine consegnata al generale Gualtiero Mario De Cicco di Onor caduti. Non mancano le sorprese: a Bari hanno scoperto i resti di altri cinque uomini, rispetto ai 27 previsti, forse soldati tedeschi. Durante la riesumazione a Ossero sono emersi dalla fossa comune un bottone nero di un’uniforme italiana e un altro con l’àncora della Marina che potrebbe essere di una divisa tedesca. Adesso si entra nel vivo con l’esame del Dna. Le 32 cassette metalliche grigie rimangono allineate nella sala delle autopsie di Bari, ma altre due, avvolte dal Tricolore, sono a parte. «Contengono 350 campioni prelevati dai resti, soprattutto dalle ossa dei femori, che permettono un maggior successo per l’identificazione» spiega Paolo Fattorini, direttore della Scuola di specializzazione in medicina legale a Trieste.
Su 21 caduti della X Mas sono stati rintracciati 14 familiari. «Dopo 77 anni si tratta soprattutto di nipoti, ma c’è anche qualche sorella e un figlio che vive negli Stati Uniti» osserva Fattorini. «Abbiamo costruito kit di auto prelievo del campione salivare e siamo pronti per l’esame del codice genetico». Un lavoro complesso che durerà altri 6-9 mesi. «Le due cassette con i frammenti verrano trasportati da noi militari a Trieste verso metà novembre» conferma il maggiore Cosimo De Libero, direttore del Sacrario dei caduti di oltremare di Bari. «Ci tengo moltissimo non solo dal punto di vista scientifico. Mia madre era profuga istriana di Portole e il nonno, suo padre, ufficiale dell’esercito italiano si è salvato per miracolo» ammette Fattorini. «I marò sono soldati trucidati e appartengono alla storia – bella o brutta – del nostro Paese. Tutti i resti dei caduti hanno diritto a un nome».
Licia Giadrossi, presidente della Comunità di Lussinpiccolo che ha dato il via all’iniziativa raccogliendo i fondi attraverso Panorama.it, auspica «di arrivare a un risultato concreto nell’identificazione dei marò, che attendo con ansia. È stata lunga e tribolata, ma siamo alla fase finale». Il primo a svelare la storia celata dei marò trucidati a Ossero è stato il capitano Federico Scopinich nel 2008 sul Foglio di Lussino, periodico degli esuli, grazie a testimonianze raccolte sul posto. Un altro «mastino» del cold case è Riccardo Maculan, che con una minuziosa ricerca ha rintracciato i familiari dei marò per l’esame del Dna. «Associato a un nome e cognome del caduto avevo solo data e luogo di nascita» racconta l’ex carabiniere. «In un caso tutti i parenti erano scomparsi. Solo un nipote non ne ha voluto sapere, affermando che i resti dello zio riposino in pace».
Uno degli ultimi rintracciati oltreoceano è il figlio, emigrato negli Usa nel 1951, di Giuseppe Pino Mangolini, ucciso a Ossero e nato a Pola. Francesco De Muru era un altro dei marò passati per le armi dai partigiani di Tito. Classe 1924, partì giovanissimo da Posada, in provincia di Nuoro, per la guerra. La nipote Maria Antonietta ci ha raccontato che la «famiglia non ha mai più saputo nulla. Era ufficialmente disperso». Suo figlio ha aperto un ristorante chiamandolo FraDe meu, in ricordo del marò ucciso, e all’interno c’è un dipinto speciale. Il mare di Ossero e il caduto di spalle che guarda verso l’Italia. «L’emozione è fortissima, non riesco neanche a descriverla» dice Maria Antonietta. «Speriamo tanto che arrivi la notizia dell’identificazione per portare mio zio, finalmente, a casa».