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Caivano: i riti iniziatici per aspiranti criminali

Caivano: i riti iniziatici per aspiranti criminali

I verbali dei «pentiti» del Parco Verde, che Panorama ha letto in esclusiva, descrivono un’industria della malavita feroce e perfettamente oliata. E le prove che i giovanissimi devono superare per diventare boss: uccidere cani randagi, masticare vetro, creare nuove piazze di spaccio… Viaggio nel rione più discusso del momento.


Appena entrati nel Parco Verde, a Caivano (Na), veniamo avvicinati da un uomo sulla cinquantina che ci annusa come farebbe un leone con uno sprovveduto turista sceso dalla jeep safari. Ci gira un po’ attorno e, preso da improvvisa compassione, si offre di evitarci guai, sprovvisti come siamo di adeguata protezione. «Io sono l’addetto agli allacci illegali», si presenta, pavoneggiandosi per la qualifica di cui non cogliamo subito il valore sociale. «In cambio di 50 euro, collego le utenze domestiche ai pali della luce. Qui è tutto abusivo». Non è un’autodenuncia: è coscienza di classe.

«Niente foto però, vi porto in giro io, state tranquillo». Va bene: affare fatto.

Se l’inferno fosse un luogo fisico, sarebbe il Parco Verde. In questo mare di cemento due cuginette di 13 anni sono state violentate (e filmate) dal branco appena poche settimane fa. E due bambini (Fortuna e Antonio) sono stati ammazzati, negli anni scorsi, scaraventandoli dai balconi di palazzoni tristi e scrostati che, come alveari marci, offrono rifugio a pregiudicati di ogni risma. E

un terzo ragazzino è morto nello stesso atroce modo e non si è mai capito se è stata una disgrazia o un altro omicidio.

A pochi metri, una donna ci squadra con aria interessata. «È la guardiana del parcheggio» ci viene in aiuto l’uomo. Chi non vuole farsi rubare le gomme delle auto la «assume» e le allunga una banconota al mese. «Meglio prevenire che curare», taglia corto il tecnico degli allacci. «Un cambio pneumatici costa certo di più».

A comandare sono due clan alleati in un’unica formazione, i Sautto-Ciccarelli. Su questo l’accompagnatore tuttavia glissa. Ma se tace lui, parlano i verbali dei pentiti che hanno descritto una industria malavitosa in perfetto funzionamento. Una piccola Medellin che già in epoca non sospetta l’attuale capo della polizia, Vittorio Pisani, rastrellava con la sua Squadra Mobile di Napoli a caccia di latitanti e malfattori.

Ogni anfratto è buono per vendere droga da queste parti. Racconta il collaboratore Mariano Vasapollo che in un solo palazzo lavorano in contemporanea tre piazze di spaccio: cocaina, marijuana e kobrett. E altre, più piccole, sono attrezzate in anonimi appartamenti. «Per vendere la droga nel Parco Verde devi per forza rifornirti dal clan perché senza l’ok della famiglia non si può fare nulla», ha spiegato il trafficante. Un pusher di medio livello riesce a guadagnare «fino a 15 mila euro al mese» mentre un capopiazza tocca i «150/200 mila euro al mese».

La cocaina arriva dalla vicina Secondigliano: il prezzo all’ingrosso è circa 30 mila euro al chilo. Ma è capitato pure che sia stata pagata con manciate di Rolex rubati di cui, qui, si cura un apposito borsino. Fin quando è stato libero, Gennaro Sautto ha gestito l’intero mercato degli stupefacenti del Parco Verde. Un tizio sveglio che assomiglia un po’ a Walter White, il protagonista della serie tv Breaking Bad. Tant’è che un altro pentito, Vincenzo Iuorio, ai pm ha tracciato questo profilo: «Genny è un vero e proprio chimico e quindi sa preparare benissimo il crack».

Per rendere l’idea della sua ammirazione, Iuorio ha confessato di avere un tatuaggio sulla schiena che recita: «Meglio morire che tradire la famiglia Sautto». Fa paura il padrino, ma fa paura non di meno la madrina. La moglie del capoclan, Sonia Brancaccio, è indicata nei verbali come la vera mente finanziaria del gruppo. È quella che si occupava delle «puntate», ha spiegato Iuorio, «mette cioè i soldi per acquistare la droga in grossi quantitativi essendo una persona molto, molto ricca». «Comandava lei più che il marito», ha aggiunto. «Era una persona che aveva voce in capitolo. Poteva decidere di non rifornire di droga una piazza perché uno le era semplicemente antipatico».

L’accompagnatore fa un gesto a una vedetta che, camminando da soli, ci avrebbe certamente creato qualche problema. E ci porta lungo uno degli enormi cortili su cui si affacciano portoni sgangherati. «Qui sono venuti a fare il blitz» racconta. Alludendo alla maxi operazione di inizio settembre che ha visti impegnati 400 uomini per la prima azione di bonifica del territorio promessa da Giorgia Meloni e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Poco distante un vespaio di motorini impazziti si muove attorno a un incrocio. È un cane di ferro che tenta furiosamente di mordersi la coda. Sono gli apprendisti affiliati. Ragazzotti che hanno vinto il dottorato del crimine. E che ora devono seguire i corsi.

Primo esame: mira in movimento. Uccidere gli animali randagi per imparare a prevedere gli spostamenti delle vittime e non dar loro scampo. Secondo esame: prova di coraggio. Chi aspira al bastone del comando non deve aver paura di sputare sangue. Nel senso letterale del termine. Le voci del rione raccontano di una sfida al limite dei «picciotti»: masticare pezzi di vetro. La bocca lacerata e i denti scheggiati sono le stimmate del malavitoso. L’insegnamento supremo: parlare troppo fa male.

Ma questo lo hanno capito tardi Gennaro Amaro ed Emilio Solimene. Si erano messi in testa di scalzare i capibastone e lo dicevano in giro. Ora sono sottoterra. Il primo è stato ammazzato da quello stesso Vasapollo che poi deciderà di collaborare con la Procura. Per evitare di dare nell’occhio, ha confessato ai magistrati antimafia, Vasapollo ha raggiunto Amaro alle spalle in sella a una bicicletta. Una moto avrebbe fatto troppo rumore.

L’altro è stato invece giustiziato da un sicario che ha poi cancellato le tracce di polvere da sparo facendosi una doccia con una «intera confezione di Coca Cola». La sorella di Solimene, novella vindice, aveva provato a investire con la macchina uno del commando. Allora, il padrino ha deciso di darle una lezione incendiandole la vettura. E i propositi di ritorsione son spariti da un giorno all’altro. Parce sepulto, come si dice.

Inutile combattere una guerra persa in partenza. Non puoi vincere impugnando una fionda quando i nemici schierano i lanciamissili. Le armi nel Parco Verde arrivano, ha spiegato ancora Iuorio, da «albanesi e zingari». Se ne trovano ovunque. «Lo abbiamo segato» dice uno degli assassini di Solimene a un amico. «Abbiamo usato kalashnikov e pistole». Quando i revolver iniziano a «scottare» troppo, il clan convoca il fabbro del rione che ha il compito di distruggerli, in apposite presse, e di smaltirli come ferrivecchi del mestiere.

«Dopo Scampia e Secondigliano, è il turno nostro» prova a fare sociologia la guida. «Di tutto quello che scrivono i giornali, è vero l’1 per cento. Forse. Qui abitano tante famiglie oneste. Ci arrangiamo, ma la camorra non c’è. Sta fuori, sta a Caivano, non qui». Come se il Parco Verde fosse una repubblica indipendente.

Bimbetti giocano a pallone tra gli edifici e si chiamano con fischi che sembrano quelli di un cojote del deserto, e non si capisce se stanno indicando un rigore oppure se stanno comunicando con le sentinelle dal lato opposto al campo per segnalare un intruso. È come se gli abitanti del Parco si fossero chiusi da soli in galera. Trincerati in un oppidum romano con tanto di palizzate di cemento.

«Se serve, mio figlio vende cellulari. Ha ottime offerte, ci vogliamo fare un salto?» si lancia la guida che ora ha necessità di ricavare qualcosa da tanta cortesia nei nostri confronti. Chissà, forse sono gli stessi telefonini fatti arrivare ai boss detenuti per continuare a gestire gli affari illeciti nel loro feudo. Assenti, ma sempre presenti. Le notizie volano, non restano mai dietro le sbarre.

Come quella sul pentimento di Vasapollo che mette in allarme Antonio Ciccarelli fino al punto da convincerlo a scrivere una lettera al suo ex braccio destro per chiedergli di «intraprendere una falsa collaborazione con la giustizia, ovvero di scagionarlo» riguardo a due omicidi «di cui è stato il mandante». «Se lo avessi discolpato» ha poi rivelato il collaboratore «avrebbe pensato lui a me e al mio mantenimento facendomi avere una somma dai 5 ai 10 mila euro al mese». Di fronte a tanta munificenza, Vasapollo ha tentennato per un po’. Dopo un mese, però, gli è arrivata un’altra lettera con l’invito a tacere del tutto, e in allegato ha trovato le due foto dei figli del «malacarne». Un monito per ricordare che il sangue non dimentica, anche a distanza di generazioni. Allora, Vasapollo ha deciso. E ha riempito pagine di efferatezze.

E adesso chi c’è al vertice della famiglia? «Sautto? Ciccarelli? Mai sentiti questi nomi, non so di cosa state parlando» taglia corto l’accompagnatore ora impaziente e sgarbato. La gita (gratis) è durata fin troppo. Incalza. Sbuffa. «Vi ho regalato un intero pomeriggio e non mi offrite manco un caffè?». n

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