Accusato di frode, l’ex numero uno di Nissan-Renault Carlos Ghosn è fuggito da Tokyo dopo aver subìto interrogatori di otto ore consecutive, senza un avvocato difensore. Nel Paese del Sol Levante i sospettati sono considerati colpevoli a prescindere dalle prove. In attesa del processo, finiscono in carcere per mesi o anni. E spesso vengono spinti a confessare reati mai commessi.
All’interno la ricostruzione in 10 punti della rocambolesca vicenda giudiziaria.
«Sono scappato dal Giappone non per fuggire alla giustizia, ma per avere giustizia. Rischiavo di restare ostaggio di un sistema giudiziario che ha il 99,4 per cento di condanne». Così Carlos Ghosn, ex amministratore delegato del gruppo Renault-Nissan, ha giustificato la sua fuga rocambolesca da Tokyo il 30 dicembre scorso dove, agli arresti domiciliari, aspettava il responso sulle accuse di illeciti finanziari mosse contro di lui nel 2018. «Il pubblico ministero ha provato di tutto per convincermi a confessare» ha dichiarato il businessman franco-libanese al Guardian. «Ho dovuto sopportare interrogatori di otto ore consecutive, accettando che nessuno dei miei avvocati fosse autorizzato a essere presente».
Dopo mesi di detenzione «ingiustificata», Ghosn deve aver temuto di poter fare la fine di Hiromasa Ezoe, noto uomo d’affari giapponese che, condannato per corruzione a fine anni Ottanta, lottò fino all’ultimo per dimostrare la sua innocenza. Ci riuscì solo nel 2003, quando gli venne formalizzata una «pena sospesa» di tre anni. A riprova di come, in Giappone, i sospettati siano dichiarati colpevoli anche a fronte di prove inconsistenti.
Senza troppo entrare del caso Ghosn, le cui accuse di falso in bilancio e appropriazione indebita di fondi aziendali meritano un’ovvia verifica, il sistema giudiziario nipponico si conferma uno dei più iniqui al mondo. Amnesty international ha denunciato più volte il Paese per aver creato una prassi giudiziale che si contraddistingue per capi d’accusa durissimi, interrogatori violenti, isolamento assoluto (vietati i contatti con famiglia e avvocati della difesa) e pene senza fine: un incubo che spinge la maggior parte a dichiararsi colpevole anche quando non lo si è, per sfuggire a questa morsa.
Il Giappone considera sempre colpevoli i sospettati, fino a quando non riescono a dimostrare la propria innocenza. Ecco perché li tiene in prigione mesi, o anni, prima di convocarli in udienza. «Nella mentalità nipponica, il sistema hitojichi shiho» spiega la ricercatrice Ikuko Nakane dell’Università di Melbourne «funziona benissimo: i sospettati sono ostaggi della giustizia e restano in carcere o agli arresti domiciliari fin tanto che confessano il reato commesso. O non commesso, perché la certezza di colpevolezza in Giappone non esiste». Anni spesi a raccogliere testimonianze dei condannati hanno convinto Nakane che i processi, in Giappone, sono finti. Nessuno è innocente. L’unico gesto di clemenza a cui un condannato può aspirare è quello di ricevere la grazia nel momento stesso in cui la sua condanna viene pronunciata. Ma, di fatto, non succede così spesso. Anche perché l’influenza sul processo degli avvocati della difesa è sostanzialmente nulla.
Il vice procuratore di Tokyo Shin Kukimoto, però, non ha dubbi: «La giustizia qui funziona, abbiamo un tasso di criminalità insignificante rispetto a quello registrato in qualsiasi altro Stato al mondo. Perché dovremmo cambiare?». Per Kumikoto ogni Paese ha la sua storia, la sua cultura, le sue abitudini e i suoi valori, e vanno rispettati. «Così come noi non condanniamo i sistemi giudiziari altrui, non vedo perché il nostro modello debba essere giudicato in maniera tanto negativa». Le statistiche sembrano confermare: il Giappone è uno delle nazioni più sicure al mondo, secondo solo a Singapore. «Il sistema giudiziario giapponese è stato creato subito dopo la Seconda guerra mondiale» precisa Hirofumi Uchida, specialista di diritto penale presso la Kyushu University, «in un momento in cui la società era in cerca di un capro espiatorio per la doppia umiliazione subìta: la sconfitta in guerra e l’annientamento provocato dalle bombe atomiche».
David Johnson, sociologo statunitense che studia il Sol Levante, aggiunge che a quei tempi i procuratori godevano di una discrezionalità assoluta nell’individuare i colpevoli, indipendentemente da quantità e attendibilità delle prove. «Fino agli anni Novanta» spiega, «il tasso di condanne è rimasto fisso al 100 per cento», il che vuol dire che tutti i sospettati sono stati poi incriminati. La situazione è più o meno invariata. Per Daniel Foote, giurista dell’Università di Washington, oggi siamo scesi al 99 per cento: «Il sistema non lascia vie d’uscita, e sta in piedi grazie all’omertà di una società convinta che sicurezza e rispetto delle regole siano prioritari rispetto a ogni altro diritto». Un atteggiamento che Uchida definisce «comprensibile» in un contesto in cui l’ordine è sovrano, ma che non deve eliminare a priori il diritto al «giusto processo».
Eppure, l’idea che l’avvocato della difesa debba assistere durante l’interrogatorio (in cui, di regola, l’accusato deve restare in piedi e non può guardare negli occhi le autorità) o a rimanere in contatto con i familiari nel corso della detenzione non viene nemmeno presa in considerazione. «I procuratori usano gli interrogatori per manipolare i sospettati» precisa ancora Nakane. «Perciò li isolano». In una ricerca in cui la studiosa ha confrontato le confessioni dei sospettati di omicidio, è emerso che, interrogatorio dopo interrogatorio, il racconto dei presunti colpevoli cambiava. «Molti hanno finito col rispondere a domande su dettagli chiave che, in un sistema più equo, avrebbero potuto aiutarli a scagionarsi, con disarmanti “non lo so”, wakaranai, oppure “non me lo ricordo perché sono stupido, mi dispiace”, gomennasai baka nanode wakari kanemasu».
I toni aggressivi degli interrogatori, il rispetto profondo che ogni giapponese nutre nei confronti dell’autorità, la vergogna legata all’essere associato a un crimine a prescindere dalla natura dello stesso, la disperazione di fronte alla gogna sociale che la condanna fa ricadere sulle famiglie del detenuto (che spesso ripudiano il proprio parente) sono tutti elementi che inducono anche gli innocenti a confessare reati non commessi. Per almeno due motivi: la speranza di ricevere una «pena sospesa» durante il processo e il desiderio di alleviare il peso della condanna sociale sui familliari, assumendosi la responsabilità di quanto accaduto (pure se non è davvero successo).
Per quanto procuratori e forze dell’ordine continuino a considerarsi infallibili, negli ultimi 20 anni una serie di scandali legati ad abusi ingiustificati su colpevoli, confermati e presunti, ha spinto una piccola parte della popolazione a riflettere su fino a che punto un sistema giudiziario privo di controlli possa essere considerato equo e trasparente. Il governo si è sentito chiamato in causa e ha approvato qualche riforma: oggi alcuni interrogatori vengono registrati e in taluni processi è stata reinserita la figura del giudice popolare, con il compito di assistere quello togato e commentarne le decisioni. Nella sostanza, però, non è cambiato granché.
Solo per una tipologia di reato la logica della presunzione di consapevolezza non funziona: la violenza sessuale. Il risarcimento di una cifra pari a circa 27 mila euro imposto al giornalista Noriyuki Yamaguchi nei confronti di Shiori Ito per «fare ammenda» di un abuso commesso nel 2015, denunciato nel 2017 e confermato nel 2019, non fa altro che riflettere il profondo maschilismo che contraddistingue la società nipponica. In un Paese il cui il 95 per cento delle vittime di aggressione sessuale resta in silenzio, il grido di dolore di Ito è stato vissuto come uno choc. La ragazza ha definito la sentenza «una vittoria per le donne», ma in realtà è una sconfitta: in un sistema in cui si è colpevoli fino a prova contraria, Yamaguchi è rimasto a piede libero. È poi inaccettabile che il procuratore, per aiutare la ragazza, abbia dovuto dimostrare in maniera inequivocabile che il rapporto sessuale in questione fosse stato non consenziente. Come? Costringendo Ito a riviverlo più e più volte, simulandolo di fronte alle forze dell’ordine con l’aiuto di pupazzi gonfiabili. L’Onu ha ragione: sul fronte della legalità il Giappone resta inchiodato al Medioevo.
Il caso Ghosn in 10 punti. Dall’arresto a Tokyo alla fuga in Libano, la ricostruzione della rocambolesca vicenda giudiziaria dell’ex amministratore delegato di Nissan-Renault
- È il 19 novembre del 2018 quando il manager brasiliano di origini libanesi Carlos Ghosn, amministratore delegato di Nissan-Renault, viene arrestato a Tokyo con l’accusa di aver fornito informazioni scorrette sui bilanci aziendali e sulla propria remunerazione. In particolare, gli viene contestato di aver dichiarato la metà del suo stipendio fino al 2015. A finire in manette è anche il suo braccio destro, Greg Kelly. Il 10 dicembre Ghosn viene arrestato una seconda volta con la medesima accusa, ma riferita a un periodo di tre anni più lungo: anziché fermarsi al 2015, le malversazioni del manager avrebbero avuto luogo fino al 2018.
- Dopo un mese di detenzione, il 21 dicembre il pubblico ministero giapponese emette un ulteriore mandato d’arresto. La nuova accusa è di aver gravato economicamente sulla Nissan per coprire problemi derivati da investimenti personali. Nel successivo gennaio, Ghosn, intervenendo in tribunale, si dichiara innocente. Dopo circa cento giorni di detenzione, il manager esce di prigione il 6 marzo del 2019, pagando una cauzione di nove milioni di dollari.
- Lo stato di libertà dura ben poco. Neanche un mese dopo il rilascio, viene spiccato un quarto mandato d’arresto contro il manager, accusato stavolta di essersi appropriato indebitamente di alcuni fondi della società (circa 34 milioni di dollari in sette anni). L’ex amministratore delegato di Nissan parla di un provvedimento «oltraggioso e arbitrario».
- È il 25 aprile del 2019 quando il manager brasiliano viene nuovamente rilasciato, dietro una cauzione di quattro milioni di euro. Tra le condizioni impostegli per tornare in libertà vigilata, il manager (che continua a professare la propria innocenza) ha dovuto limitare fortemente i contatti con la moglie e privarsi dei passaporti.
- Alla fine dello scorso dicembre, mentre è in attesa di essere processato, il manager abbandona segretamente il Giappone, per recarsi in Libano. Una fuga in piena regola, con Ghosn che dichiara «di essere sfuggito a un’ingiustizia e alla persecuzione politica». Sulla base delle ricostruzioni, pare che l’«evasione» sia avvenuta attraverso un piano ben congegnato.
- Stando a quanto riportato dal Wall Street Journal il 6 gennaio, sembrerebbe che Ghosn sia fuggito con un jet privato da Osaka, dopo essersi nascosto in una custodia per strumenti musicali. L’aereo sarebbe quindi arrivato a Istanbul, in Turchia. Lì il manager si sarebbe imbarcato su un altro jet diretto in Libano (Paese che non ha accordi di estradizione con il Giappone). Una ventina di persone avrebbe preso parte all’organizzazione della fuga, per la realizzazione della quale sarebbero serviti svariati milioni di dollari.
- All’inizio di gennaio, la magistratura nipponica emette un mandato di cattura contro la moglie del fuggitivo, Carole, con l’accusa di falsa testimonianza. Nissan si mette intanto sul piede di guerra. «La società continuerà a intraprendere le adeguate azioni legali, ritenendo Ghosn responsabile del danno che il suo comportamento scorretto ha causato a Nissan» avrebbe sottoscritto un contratto con Netflix per la realizzazione di una serie televisiva dedicata alla sua vicenda. L’indiscrezione è stata smentita dal diretto interessato.
- A fine gennaio circolano voci secondo cui Ghosn avrebbe sottoscritto un contratto con Netflix per realizzare una serie televisiva dedicata alla sua vicenda. L’indiscrezione viene smentita dal diretto interessato.
- Il 22 gennaio Ghosn dichiara: «A dicembre, quando mi hanno detto che dopo 14 mesi non c’era ancora una data per il processo, ho capito che rischiavo di restare in Giappone a vita, ostaggio di un sistema giudiziario che ha il 99,4 per cento di condanne. Al posto mio chi non sarebbe scappato?» Di ben altro avviso, il governo di Tokyo, che difende l’operato della magistratura nipponica.
- Secondo il Japan Times, il Libano avrà circa un mese di tempo per decidere se estradare Ghosn in Giappone. L’eventualità è improbabile e il team difensivo del manager spera che il processo si celebri in territorio libanese. Eventualità che Tokyo sta cercando di scongiurare.
