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Quelli che davvero fanno gli accordi di pace

Quelli che davvero fanno gli accordi di pace

Dietro Presidenti e ministri ci sono persone che poi alla fine mettono in pratica le indicazioni dei superiori. Tra mille difficoltà

«La negoziazione non è un’arte arcana ed esoterica. Trattare con i rapitori è facile. Perché tutto consiste in una pura transazione: loro hanno qualcosa che noi vogliamo, e noi abbiamo qualcosa che loro vogliono – si tratta solo di arrivare al punto in cui possiamo scambiarlo in modo sicuro».

Ad affermarlo è Scott Walker, esperto negoziatore per il rilascio di ostaggi britannico. E a confermare le sue parole è, tra gli altri, Zorka Martinovich, ex agente speciale supervisore dell’unità di negoziazione delle crisi per l’FBI: «In sostanza, si tratta di affari» sottolinea, aggiungendo che questo vale tanto per il rilascio di businessmen come per gli ostaggi in mano a terroristi, siano essi soldati o civili. Non va infatti dimenticato che chi rapisce, lo fa sempre e soltanto per ottenere un riscatto.

Le affermazioni di cui sopra possono sembrare contro-intuitive e suonare forse insensibili, ma ogni esperto in materia di rapimenti le convaliderà: per ottenere il rilascio di un ostaggio in piena sicurezza, si deve pensare esclusivamente in modo transazionale. Non c’è spazio per l’ego o per dinamiche personali, così come c’entrano poco la politica e l’ideologia. Tutto si riduce banalmente a un do ut des: se Hamas avesse voluto morti i 240 israeliani rapiti il 7 ottobre, ad esempio, non avrebbe curato i prigionieri feriti e, soprattutto, non avrebbe brigato sin da subito per mostrarsi più che disponibile allo scambio.

Che è poi ciò che ha convinto il governo di Benjamin Netanyahu: negoziare la liberazione degli ostaggi si è reso necessario nella (quasi) certezza di poter salvare la loro vita. O almeno di una parte di loro. Così è nato l’accordo che consente il rilascio di 50 israeliani a fronte della liberazione di 150 detenuti palestinesi e di una tregua dalle ostilità della durata di almeno 4 giorni. Come si vede, si tratta di una transazione, niente di più. Un pattern che sia Hamas che Israele sanno di poter replicare, sulla base delle esperienze passate e della reciproca convinzione che è conveniente per entrambi. Dopodiché, la guerra potrà riprendere in tutta la sua brutalità.

Da un lato, a dare l’ok alla negoziazione è stato il gabinetto di guerra di Israele, riunito sotto la guida del premier e di due generali esperti; dall’altra, l’ok è arrivato dall’ufficio politico e dal comando militare di Hamas, che hanno limato i punti dell’accordo fino al raggiungimento di un terreno d’incontro pur senza trattative dirette. La contrattazione, infatti, non è avvenuta attraverso canali ufficiali: niente strette di mano o firme tra i rappresentanti israeliani e i miliziani. Semmai, l’accordo è avvenuto grazie a squadre d’intermediari, come del resto è abitudine che accada.

A gestire operativamente simili situazioni – quando cioè si è in una condizione di belligeranza e gli ostaggi vengono considerati parte in causa del conflitto (o, più cinicamente, merce di scambio) – sono da sempre i vertici dei servizi segreti militari, coadiuvati dai colleghi dei servizi segreti civili e dalle rispettive ambasciate, che forniscono la copertura governativa, le linee telefoniche e le sedi opportune di discussione. Israele ha delegato direttamente il direttore del Mossad, David Barnea, come negoziatore capo e gli Stati Uniti il direttore della CIA, Bill Burns.

Sono loro ad aver avviato l’azione di «contatto e recupero», pur attenendosi rigorosamente ai parametri che la legge e il mandato governativo consentono loro. Una volta ottenuta l’autorizzazione – basta anche una telefonata – il processo negoziale può prendere corpo.

Nel caso della trattativa tra Israele e Hamas, in particolare, è stata creata un’apposita cellula segreta che ha lavorato sin dall’8 ottobre (cioè il giorno successivo al rapimento degli israeliani) per creare le condizioni idonee al rilascio degli ostaggi. A farne parte, quattro Paesi: Israele, Egitto, Usa e Qatar. Non invece l’autorità palestinese e nemmeno i dirigenti di Hamas.

La luce verde alla composizione della cellula è arrivata dal più alto livello, quello presidenziale nel caso di Israele, Usa ed Egitto; e quello del monarca nel caso del Qatar (l’Emirato è una monarchia assoluta), dopodiché i servizi segreti interni ed esterni dei rispettivi Paesi hanno iniziato a parlare. Un funzionario anonimo dell’amministrazione Usa ha confermato alla Bbc che il presidente Joe Biden si è impegnato «direttamente e personalmente», chiamando di persona i leader di Israele e del Qatar nei momenti critici, per sciogliere le resistenze soprattutto da parte di Netanyahu.

L’iniziativa di dar vita al gruppo di contatto, infatti, non è stata israeliana, come istintivamente si sarebbe portati a pensare. È stato invece il Qatar ad essersi avvicinato a Israele e agli Stati Uniti proponendo loro di istituire una task force, con la garanzia che una «unità di crisi» internazionale avrebbe potuto lavorare sulla questione producendo ottimi risultati. Ovviamente, Doha non ha agito né per carità né per buon cuore, ma soltanto perché è il principale sponsor finanziario di Hamas, tanto è vero che nell’Emirato risiedono ben protetti i capi dell’organizzazione terroristica.

Il processo negoziale è stato relativamente tortuoso, perché i messaggi dovevano passare da Doha verso il Cairo e verso Hamas a Gaza, e poi di nuovo tornare indietro. Tali colloqui, assicurano le fonti interessate, sono stati «altamente tecnici» e funzionali esclusivamente alla definizione dei dettagli: quali corridoi usare (Rafah, lato egiziano), che tipo di sorveglianza (anzitutto militare), le tempistiche del rilascio e le modalità (una colonna di ambulanze), il numero preciso di ostaggi, la loro tipologia (donne, bambini, feriti, etc.), e persino la nazionalità (molti israeliani hanno doppio passaporto e non tutti i prigionieri di Hamas sono palestinesi).

La prima svolta è avvenuta il 23 ottobre, quando Hamas ha rilasciato i primi ostaggi: due donne americane. Si è trattato di una sorta di «progetto pilota», come ha affermato candidamente il funzionario dell’amministrazione Usa citato dalla Bbc. Quello scambio è servito per «dimostrare il concetto» e la «buona volontà» da parte dei rapitori. In seguito al positivo esito dello scambio pilota, hanno preso corpo più seri sforzi negoziali per consentire un rilascio numericamente ampio e soddisfacente.

Proprio quando sembrava che si stesse avvicinando l’accordo definitivo, siamo a metà novembre, però, tutto si è improvvisamente bloccato, perché le comunicazioni con Hamas hanno iniziato a farsi «oscure». Anche se non vi è certezza delle ragioni per cui i colloqui si sono interrotti una prima volta, è proprio in quel periodo che a Gaza City è finito il carburante e che i soldati israeliani hanno circondato la città. Quando infine le comunicazioni sono state ripristinate, è stato necessario del tempo per risolvere le lacune dell’accordo, «a causa dell’alto livello di sfiducia di Israele e dell’America nei confronti di Hamas» secondo il funzionario anonimo.

Uno dei punti critici pare sia stato l’incapacità di Hamas di identificare chiaramente chi avrebbe dovuto far parte del gruppo di 50 ostaggi da rilasciare. La cosa ha rischiato di creare una rottura insanabile, ma è stata superata e il canale di contatto è stato riaperto. Questo iter negoziale, questa transazione urgente e necessaria, può adesso fare da apripista per ulteriori rilasci di ostaggi a fronte di nuove concessioni da parte israeliana verso Hamas. «Questa è solo la fase iniziale, siamo determinati a riportare tutti a casa» giurano fonti molto vicine a Gerusalemme.

Del resto, come ricorda il negoziatore dell’FBI Martinovich, «negoziare con i sequestratori e in genere pagare un prezzo è la strada migliore per un rilascio sicuro». E non c’è ragione politica o militare che tenga: «Per me, come negoziatore, se riusciamo a far uscire la persona sana e salva, è comunque un successo, anche se non identifichiamo, arrestiamo o perseguiamo qualcuno».

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