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Controlli per la malnutrizione su una profuga tigrina di 4 anni in Sudan il 2 dicembre 2020 (Getty Images).
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I tigrini italiani: «Finanziamenti e accordo militare fra Roma e Addis Abeba»

«Il silenzio di Mario Draghi sul genocidio in Tigray coincide con il ruolo del governo italiano in questa catastrofe umanitaria. In 10 mesi di massacri, saccheggi e stupri di massa, Roma si è più di una volta scontrata con la linea di Bruxelles e Washington. Come nel caso del finanziamento alle elezioni farsa di Abiy Ahmed. L'Italia è il Paese occidentale più vicino all'amministrazione genocida di Addis Abeba». A denunciare il nostro governo sono i Giovani tigrini italiani, un gruppo di nostri connazionali di origine tigrina che si batte per informare l'opinione pubblica della catastrofe umanitaria nella regione etiope. Un conflitto che potrebbe portare milioni di persone a morire di fame, per cui il 17 settembre il presidente Joe Biden ha annunciato nuove sanzioni.

Quando, lo scorso novembre, «il premier etiope Abiy Ahmed e il dittatore eritreo Isaias Afewerki hanno invaso la regione etiope», questi giovani attivisti hanno raccolto il testimone dei loro parenti «messi a tacere in Tigray a causa del blocco delle telecomunicazioni». E, forti di lauree e di Master, si sono mobilitati per «fermare il genocidio». I loro punti di forza? Una grande accuratezza e l'uso sapiente di Twitter.

È stato grazie al social media che Panorama li ha conosciuti. Dopo la pubblicazione dell'intervista al professor Mulugeta Gebregziabher, che chiedeva a Draghi di «prendere posizione sul genocidio in Tigray», il loro account @TigrayItalia ha twittato: «Palazzo Chigi dovrebbe spiegare perché ha finanziato le elezioni di @AbiyAhmed Ali in pieno #TigrayGenocide».

Possibile? Roma ha dato soldi al premier etiope che, come accusa di Samantha Power, ex rappresentante Usa all'Onu, sta «impedendo che gli aiuti umanitari raggiungano velocemente» centinaia di migliaia di persone che rischiano di morire di fame? E che già a maggio non era in grado di garantire l'indipendenza delle elezioni, tanto che l'Unione europea aveva cancellato la sua missione di osservatori elettorali? La notizia aveva dell'incredibile. Eppure, come Panorama ha appurato, è vera.

«Che la Farnesina di Luigi Di Maio sia politicamente vicina all'amministrazione genocida di Abiy Ahmed è per noi un dato di fatto» denunciano i Giovani tigrini, che per tutelare i loro parenti in Etiopia preferiscono non comparire con nome e cognome. «Il Vice ministro degli Esteri Marina Sereni è stata l'unica figura politica occidentale che si è affrettata a dare la colpa al Tplf (il Fronte popolare di liberazione del Tigray, ndr) per l'inizio del conflitto. Incurante del fatto che da mesi l'esercito federale etiope, quello eritreo e le milizie amhara stessero compiendo massacri, stupri di massa, blocchi totali di cibo, medicine, elettricità e telecomunicazioni».

Ma è un altro punto a indignare i tigrini italiani: «A lasciarci esterrefatti è stato il finanziamento delle elezioni farsa di Abiy Ahmed da parte della Farnesina per un ammontare di 400.000 euro. Elezioni in cui tutti gli oppositori politici di Abiy erano o in carcere o costretti a difendersi in trincea. Un processo elettorale farsa, alla quale decine di milioni di etiopi di tutte le etnie, tra cui tutto il Tigray, non hanno potuto partecipare. Le stesse elezioni che il dittatore etiope aveva posticipato per mesi. Prima per convenienza politica e successivamente per mancanza di fondi».

Fondi che sono poi arrivati anche dall'Italia. In realtà, i 400.000 euro per le elezioni (che si sono tenute il 21 giugno) non sono andati direttamente nelle casse dello Stato etiope. Come ha scritto l'Ambasciata d'Italia ad Addis Abeba il 3 giugno 2021, «il Governo italiano (...) concede all'Agenzia delle Nazioni Unite un finanziamento di 400.000 Euro». E precisa che sarà gestito «in collaborazione con la sede di Addis Abeba dell'Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS)».

Insomma, soldi italiani, gestiti da italiani, per elezioni considerate poco trasparenti dall'Unione europea. A onor del vero, neanche Bruxelles ha brillato in questa vicenda. Nel comunicato con cui Josep Borrell ha annunciato la cancellazione della Missione di osservazione elettorale, l'Alto rappresentante ha ammesso che: «L'Ue ha sostenuto la Commissione elettorale nazionale dell'Etiopia (NEBE) nella preparazione di queste elezioni con più di 20 milioni di euro».

Il discrimine però è la tempistica. Mentre l'Ue ha sovvenzionato Abiy quando era fresco di Nobel per la pace, l'Italia lo ha finanziato a neanche 20 giorni dalle elezioni, quando era ormai evidente da mesi (anche agli occhi della stessa Ue) che quelle elezioni non sarebbero affatto state «libere ed eque». Commento dei Giovani tigrini: «L'Italia è stato l'unico Paese occidentale ad avere sostenuto, fuori tempo massimo, quelle elezioni».

Anche nel caso dell'accordo militare 20G00107 il problema è la tempistica. Stipulato tra il nostro Ministero della Difesa e quello etiope, prevede la formazione e l'addestramento militare dell'esercito federale etiope (articolo 3), il supporto ad attività commerciali relative ai prodotti per la «Difesa» (articolo 4), l'approvvigionamento di equipaggiamento militare (articolo 9) e la creazione di un quadro legale necessario per sottoscrivere intese supplementari (articolo 12).

«L'iter è partito nel 2019, ma l'accordo vero e proprio è entrato in vigore il 5 agosto 2020, poco prima dell'inizio del genocidio in un clima già tesissimo, tanto che gran parte di noi tigrini all'estero non metteva piede in Etiopia da mesi» spiegano gli attivisti. In effetti, già il 27 marzo 2019 il Financial Times riferiva che il premier Abiy definiva i suoi oppositori politici «iene diurne»: il riferimento ai tigrini era così evidente che questi lo accusarono di proferire «insulti etnici».

In seguito è stato un crescendo: il 7 maggio 2020, Abiy si è scagliato contro la decisione del Tigray di tenere le elezioni regionali, come previsto dalla Costituzione etiope. Lanciando cupe minacce che anticipavano l'imminente pulizia etnica: «I politici devono fare attenzione a non mettere in pericolo i giovani e le madri per prendere il potere. I giovani non devono morire, le madri non devono piangere o le case non devono essere distrutte o la gente non deve lasciare le sue case perché i politici prendano il potere». E il 18 luglio 2021 è arrivato a definire i suoi nemici «il cancro dell'Etiopia». Il culmine lo ha raggiunto Daniel Kibret, suo consigliere spirituale nonché direttore dell'Agenzia di stampa etiope. A metà settembre, durante un evento tenuto nella regione Amhara, ha detto che i tigrini devono «essere estirpati (…) dagli archivi storici. Una persona che li vuole studiare non dovrebbe trovare niente su di loro. Forse potrebbe trovarli scavando sottoterra».

Discorsi d'odio che rievocano in modo inquietante quelli che venivano fatti prima del genocidio in Ruanda nel 1994, quando i tutsi venivano definiti «scarafaggi». Una conferma arriva anche dall'inviato dell'Unione europea, il ministro degli Esteri finlandese Pekka Haavisto. Lo scorso 18 giugno ha riferito le parole ascoltate durante i suoi incontri a porte chiuse ad Addis Abeba, durante il suo viaggio avvenuto a febbraio, quando i leader etiopi annunciavano che «stavano per distruggere i tigrini, che avrebbero cancellato i tigrini per 100 anni e più».

In questo clima avvelenato, il nostro governo non si è sentito in dovere di sospendere l'accordo militare con Addis Abeba. Cosa che invece ha fatto Parigi. «Seppure in ritardo, lo scorso 13 agosto il governo francese ha sospeso un accordo simile a quello italiano» osservano i Giovani tigrini. «Roma, invece, si rifiuta addirittura di parlarne».

L'unica ad aver avuto un ripensamento è stata l'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta, che il 10 aprile 2019 aveva firmato il nostro accordo bilaterale, esprimendo «l'apprezzamento (...) del Governo italiano al percorso di riforme intrapreso dal primo ministro Abiy Ahmed». Lo scorso 28 maggio, ha ammesso su Twitter: «Certamente non avremmo detto quelle parole se avessimo conosciuto il futuro». E facendo riferimento al premier etiope, ha precisato: «Sarebbe onesto dire che ha imbrogliato anche quelli che gli hanno dato il premio Nobel per la pace».

Lo scorso primo aprile, invece, la vice-ministra Marina Sereni, fresca di delega alla Cooperazione, continuava a prendere le parti del primo ministro etiope. «L'idea di fondo del governo di Abiy è stata il superamento del federalismo "etnico" in nome di una democrazia partecipata da tutte le etnie» ha dichiarato ad Avvenire, «ma il Tplf, fronte popolare di liberazione del Tigrai, non ha accettato questo approccio e a novembre ha contribuito allo scoppio del conflitto».

Pochi giorni prima, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini era andato a Gibuti e in Somalia per ribadire il sostegno militare italiano ai governi dei due Paesi in un'ottica anti-terrorismo. «Una dichiarazione impeccabile, se non fosse che il presidente somalo Farmajo era già stato accusato di aver inviato soldati e armi in Tigray a sostegno di Abiy Ahmed Ali» commentano i Giovani tigrini. «La triangolazione illegale di armi sull'asse Gibuti City-Mogadiscio-Addis Abeba è poi un problema che non può essere ignorato. Inoltre, riallocare i soldati etiopi e somali dalla Somalia in Tigray è stata l'ennesima mossa scellerata. Il vuoto che si è creato ha permesso alle milizie Al Shabaab di riconquistare molti territori in Somalia e di destabilizzare ulteriormente il Corno d'Africa».

Finanziamenti, accordi militari, visite inopportune: sono tanti gli addebiti che i Giovani tigrini (e con loro tutta la diaspora delle regione etiope) muovono al governo italiano. «Noi siamo nati e cresciuti in Italia. Studiamo, lavoriamo, votiamo come tutti i nostri coetanei» spiegano. «Da 10 mesi, ogni giorno ci svegliamo vedendo immagini atroci su Twitter e i nostri amici e parenti in Tigray vengono massacrati, stuprati o addirittura bruciati. Ci sentiamo profondamente traditi. Davanti a tanta sofferenza, non c'è interesse economico che tenga. L'Italia non può finanziare dittatori che stanno compiendo un genocidio».

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