Silvano Fuso, Naturale = Buono?

In nessun ristorante alla moda è oggi possibile ordinare qualcosa di provenienza ignota. Della bistecca che mangiamo sappiamo nome, soprannome e tessera di partito; del pane nel cestino, vita morte e miracoli; del vino nel bicchiere, se ha avuto un’infanzia felice. È la bio-slow-tracciabilità, una delle declinazioni di maggior successo di quella filosofia che segna un’equivalenza fra natura e bontà, e che oggi un po’ tutti condividiamo. Perché la natura è buona, no? Come potrebbe non esserlo? Eppure le cose sono ben più complicate. Lo spiega molto chiaramente il chimico Silvano Fuso nel saggio Naturale = buono? (edito da Carocci) in cui smonta i falsi miti del benessere e delle retoriche green, nell’intento di riportare la discussione su un piano scientifico.  

Artificiale sarai tu
A uno sguardo più attento, la distinzione stessa fra ‘naturale’ e ‘artificiale’ appare tutt’altro che pacifica. Siamo abituati a considerare ‘naturale’ tutto ciò che avviene indipendentemente dall’uomo, mentre è ‘artificiale’ tutto ciò che viene prodotto volontariamente dagli esseri umani. Nessuno indicherebbe come ‘artificiale’ la diga costruita da una colonia di castori, mentre non ci sarebbero dubbi invece per una diga di costruzione umana. Ma perché poi? Non si tratta in entrambi i casi di strutture che alterano l’ambiente  costruite a partire da elementi naturali trasformati dall’ingegno di una specie?

Ave Natura
Secondo Fuso, ‘La sacralizzazione della natura non è dissimile da alcune forme di dogmatismo fondamentalista di carattere religioso. Essa risulta addirittura contraria a ciò che la stessa ecologia ci insegna’ e cioè che l’antropocentrismo è un comportamento perfettamente naturale, in quanto coerente con una tendenza che si ritrova in tutto il mondo biologico: privilegiare i propri simili a discapito delle altre specie. ‘Rifiutare questo in nome di una generica moralità superiore significa negare la realtà’.

Quando c'era Lei
Ciononostante, tale atteggiamento trova consensi soprattutto in quelle parti politiche e culturali che per tradizione dovrebbero essere progressiste. 'I bei tempi antichi, i sapori di una volta, i rimedi della nonna, l’armonia con la natura sono richiami che esercitano un fascino irresistibile su molti individui’. Ed ecco perché, alla fine, anche il marketing se n’è impadronito. Parole come ecologico, biologico, verde, naturale, genuino, tipico, di una volta, sostenibile vanno a costituire la liturgia che sacrifica la società consumistica sull’altare di più nobili e dispendiosi consumi. L’incenso sarà pure bio, ma il rito è rimasto sempre lo stesso.

Oh mio Bio
Parliamo dell’agricoltura biologica, per esempio. Per quanto carine, le coccinelle non bastano a proteggere i raccolti, ecco allora che i protocolli permettono l’uso di una sostanza chiamata rotenone, un insetticida di origine vegetale (ma sintetizzato industrialmente) che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato come moderatamente pericoloso per l’uomo, i mammiferi in genere, e i pesci. Inoltre, non essendo selettivo, ha un forte impatto anche sugli insetti non nocivi dimostrandosi così più dannoso dei comuni insetticidi industriali. E il solfato di rame? Permesso, ma anch’esso sintetizzato industrialmente. E il letame? Non conterrebbe abbastanza azoto se gli animali che lo producono non fossero nutriti a loro volta con foraggio prodotto grazie a fertilizzanti industriali. Però le coltivazioni biologiche sono più sicure, no? Studi scientifici hanno dimostrato che il 96% dei prodotti da agricoltura tradizionale arriva nei nostri supermercati con residui di pesticidi a norma di legge. Nel caso dei prodotti biologici, la percentuale sale solo al 98,7%.

Agricoltura d'élite
Ma almeno la qualità è superiore? Allo stato attuale, non esistono studi che lo abbiano dimostrato incontrovertibilmente. Senza contare che nel 2012 un articolo che analizzava 71 studi indipendenti ha dimostrato che in certi casi la produzione biologica (ad es. olive o carne di manzo) determina meno emissioni di gas serra rispetto alla produzione convenzionale, in altri invece (ad es. latte, cereali o suini) è vero il contrario. Lo studio mostra inoltre un paradosso: sì, un campo coltivato ad agricoltura biologica ha un impatto ambientale inferiore. Ma avendo anche una resa inferiore del 25%, se dovessimo produrre la stessa quantità di prodotto di un’azienda che impiega l’agricoltura tradizionale, la nostra azienda dovrebbe consumare più risorse e avrebbe un impatto ambientale superiore alla media. L’agricoltura biologica, dunque, oltre a non essere necessariamente migliore di quella tradizionale, al momento risulta costosa, elitaria, e tutt’altro che sostenibile.

Il verbo verde
Per fortuna esistono alternative ‘bio’ di un certo successo. Come la cosiddetta ‘agricoltura naturale’ (teorizzata a partire dagli anni Quaranta dal giapponese Masanobu Fukuoka) i cui dettami impongono di non fare niente, ma proprio niente, in attesa che la natura elargisca spontaneamente i propri frutti. O l’agricoltura ‘biodinamica’, un metodo magico-antroposofico che suggerisce un calendario di coltivazione basato sui cicli lunari, sull’agitazione ritmica dei fluidi per caricarli di energia, e implica l’uso un corno di vacca (non toro, attenzione, importante, vacca) per la fertilizzazione del terreno. L’opinione di Fuso in proposito è piuttosto tranchant: ‘L’attuale moda che invita a tornare a un’agricoltura antica non ha alcuna motivazione razionale. Essa appare semplicemente una delle tante ondate emozionali che la società moderna si può concedere, grazie al livello di benessere che ha raggiunto per merito del tanto deprecato progresso scientifico-tecnologico’.

Greenwashing
Silvano Fuso deve avere tanti ottimi amici, perché leggendo questo libro è chiaro che non ha voglia di farsene di nuovi. Il discorso che porta avanti in Naturale= Buono? infatti è molto più ampio e profondo di un semplice debunking dei proclami pro bio. Spaziando dalla cristalloterapia al crudismo, dagli OGM alla paleodieta, così come dalla naturopatia alla filosofia Slow Food, Fuso si serve degli strumenti della scienza per mettere allo scoperto -senza acrimonia- le contraddizioni di un panorama ideologico ampio e sfaccettato. Un panorama che, pur informato da un sentire comune genuino, già da molto tempo ha smarrito la sua purezza per assumere le più diverse declinazioni commerciali ed emotive, non senza derive irrazionali e anti-scientifiche. Sta nel tono il pregio maggiore del libro: l’obiettivo del suo autore non è infatti quello di irridere, ma di usare la scienza per colmare quell’asimmetria informativa che ha ormai scavato un solco profondo fra consumatori e produttori. Il modo migliore per superare lo storytelling e riportare così l'attenzione su un discorso ecologico pratico, democratico, realistico, e salutare. 

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