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Donati: “Il doping nel rugby? C'è e si vede”

24 giugno 1995: a Johannesburg si scrive la storia. La squadra di rugby del Sudafrica si laurea per la prima volta campione del mondo dopo una gara memorabile contro la Nuova Zelanda. A fine partita, Nelson Mandela consegna la coppa al capitano Francpis Pienaar e comincia la festa. Per un giorno, il Sudafrica dimentica le sofferenze accumulate in anni di scontri razziali e si stringe intorno ai suoi eroi. Ieri, France 2 ha messo in onda un documentario che, pur se in punta di piedi, suggerisce una verità diversa. La domanda brucia e fa male: e se quel trionfo, dicono gli autori dell'inchiesta, fosse stato condizionato dal doping? Per Sandro Donati, consulente della Wada (l'Agenzia mondiale antidoping) e autore di numerosi libri in materia (l'ultimo, “Lo sport del doping” è edito da Gruppo Abele), “qualcosa non torna". 

Due giocatori malati di Sla, uno di mielite trasversa. Un altro ancora è morto quattro anni fa per un tumore al cervello. Colpa solo e soltanto del destino o è ragionevole farsi venire qualche dubbio?

“E' assolutamente ragionevole. Perché comincia a essere una storia che ha delle somiglianze con quella sui calciatori documentata dal procuratore Guariniello alla Procura di Torino. Se cominciamo a parlare di due casi di Sla in una rosa ristretta di una squadra nazionale, è difficile considerarlo un caso e nulla più. E anche gli altri tipi di patologie possono collegarsi all'abuso di farmaci. Perché non è necessariamente un discorso da confinare all'uso di doping, potrebbe esserci dell'altro. Il vecchio processo alla Juventus ci deve fare capire che l'ambito di riferimento può essere davvero molto ampio. I medici affondano a piene mani nella farmacopea e spesso nei farmaci non considerati dopanti, perché anche combinando sostanze consentite si riescono a produrre effetti che modificano le prestazioni di un atleta”.

Si dice da anni, più o meno sottovoce: nelle grandi manifestazioni sportive internazionali, vedi Mondiali di calcio e Olimpiadi, gli atleti e/o la squadra di casa godono spesso di cortesie che altrove non passerebbero inosservate. Anche in tema di doping. Lo pensa anche lei?

“Sì, lo penso anch'io, ma qui si pone un problema più generale e occorre per questo tirare in ballo il ruolo delle federazioni internazionali, che si trovano in maniera chiarissima di fronte al corto circuito controllore-controllato. Tali federazioni basano il loro business fatto di diritti televisivi e di sponsorizzazioni sul livello delle manifestazioni sportive che organizzano. Come si può pensare che vadano a incidere davvero su queste ultime in caso di sospetti legati al doping? La Wada è dotata di risorse finanziarie limitate, non può permettersi di controllare da vicino tutto ciò che accade”.

Spiega Nicolas Geay, il giornalista di France2 che ha curato il documentario: “Non volevo dare risposte, ma capire se era ora di sollevare il problema”. Lo chiediamo a lei: a suo parere, è ora di sollevare il problema?

“E' ora da tempo. Bisogna finirla con tutta questa retorica legata al rugby. Di quale rugby stiamo parlando? Di quello di trent'anni fa o di quello attuale? Perché il fisico di molti giocatori di oggi non è in alcun modo paragonabile a quello dei giocatori di un tempo. Se l'aspetto esteriore è cambiato, dobbiamo porci dei seri dubbi su quello che c'è all'interno e non si vede. Alcuni atleti della Nazionale sudafricana hanno manifestato malattie piuttosto gravi e rare. Cosa dobbiamo fare? Aspettare che si ammalino in tanti? A mio modo di vedere, anche nel rugby è arrivato il momento di fare una seria indagine epidemiologica, chiedendo agli atleti di collaborare nel pieno anonimato. Per cercare di ricostruire l'eventuale abuso di farmaci anche negli anni precedenti. Basta con questi giudizi generici che vengono dati dal dirigente sportivo di turno che ci assicura che nel suo sport il doping non esiste. Non funziona così. Meglio tardi che mai. Dobbiamo agire il prima possibile”.

Il pilone francese Laurent Bénézech, classe '66, avrebbe detto a Le Monde che per lui oggi il rugby “è nella stessa situazione del ciclismo alla vigilia del caso Festina”. Fosse vero, sarebbe un disastro.

“Non so se il problema sia così grave, però certamente sono evidenti i segni. Dalle masse muscolari che sono imponenti, ma anche dalla prestanza fisica che si accompagna a quelle masse. Sono masse dinamiche, non ci troviamo più di fronte a giocatori grossi che correvano poco. Oggi sono grossi e prestanti. E questo fa pensare a un possibile abuso di prodotti ormonali che incidono sulla forza e sulle masse muscolari”.

Quali le sostanze che potrebbero migliorare le prestazioni di un giocatore di rugby?

“Ce ne sono tante. Si potrebbe per esempio assumere il testosterone, ma pure l'ormone della crescita, che peraltro non viene identificato nei controlli antidoping. Si può addirittura stimolare l'organismo perché sia esso stesso a produrre testosterone. Ma penso anche al doping aerobico, perché ci sono giocatori che fanno molto movimento. Come dire, di tutto un po'”.

E' probabile che le sue parole non verranno prese benissimo dagli appassionati e dagli addetti ai lavori della palla ovale.

“Fortunatamente, il mondo del rugby è aperto al dialogo e al confronto. In passato, sono stato invitato da alcuni comitati regionali a dire la mia a proposito. Durante questi incontri, ho potuto constatare il timore di molti dirigenti e allenatori che temono di essere agli inizi di un fenomeno potenzialmente devastante. Ecco, io non la penso come Bénézech, non la vedo così nera. Il ciclismo del caso Festina era ben altra cosa rispetto al rugby. Tuttavia, il doping ha le gambe veloci, per cui bisogna intervenire il prima possibile per fare chiarezza”.

Twitter: @dario_pelizzari

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