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Rinchiuso in convento: contrappasso per Luigi Lusi

Vorrei stringere la mano al gip Simona D’Alessandro, il magistrato che ha concesso gli arresti domiciliari all’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi accusato d’aver sottratto al partito (ai contribuenti) all’incirca 25 milioni di euro. Vorrei stringerle la mano non per la scarcerazione, che sarà motivata, ma per aver disposto che Lusi si rinchiudesse nel Santuario della Madonna dei Bisognosi (un nome che è tutto un programma di recupero), tra Pereto e Rocca di Botte in Abruzzo, a oltre mille metri d’altezza sopra un colle che domina i boschi, trasformato in casa d’accoglienza per persone con disturbi psichici e problemi di tossicodipendenza. Luogo di pellegrinaggio visitato anche da Madre Teresa di Calcutta.

C’è proprio da complimentarsi con il gip, non per il destro che offre ai twitteristi e commentatori satirici per battute e vignette d’ogni tipo (persino Enrico Mentana non ha resistito alla tentazione e ha scritto, evocando il Medioevo dei libri di Umberto Eco: “Il nome della Margherita”, mentre altri hanno svariato sul tema del furto celiando sull’offertorio, la scomparsa dei rosari e il trito “non c’è più religione”). Ma non per questo. Per la serietà della scelta. Una raffinata legge del contrappasso, che più del carcere potrebbe offrire anche al più incallito dei mascalzoni l’ambiente giusto per redimersi. Che cosa potrà mai imparare da monaci che fanno voto di povertà uno come Lusi, già spavaldo frequentatore del lusso con soldi altrui?

Sgombrato il campo dal tema della fuga dal mondo come principio primo del monachesimo, resta il concetto dell’esilio e della fondazione di una nuova comunità e una nuova esistenza. Certo, Lusi sarà ancora abituato ai fasti di un tenore di vita da nababbo, con fondi sempre a disposizione e il pallino dell’investimento immobiliare. Nel santuario gestito dal rettore padre Giancarlo non sarà possibile. Lusi, forse, percepirà il voto di povertà per quello che era all’origine del monachesimo, una mera pratica ascetica e mortificatoria per ottenere la salvezza dell’anima. Cioè, un incubo. Al quale però segue la santificazione, di contro alla quotidianità prosaica e peccatrice di Montecitorio. Per dirla con Tommaso: “Paupertas non est perfectio, sed instrumentum perfectionis”. Senza contare le implicazioni storiche: una estenuante, accanita disputa più giuridica che teologica ha opposto i francescani, dediti alla vita in gramagalie, alla Curia romana o al Palazzo, per tradurlo in termini attuali, poco incline alla miseria. La regola del “vivere sine proprio”, senza proprietà, comincerà a inculcarsi nella psiche di Lusi turbata dagl’infortuni giudiziari? E che dire dell’habitare in comune, per quanto all’ex tesoriere sia stata riservata una stanzetta solo per lui (senza telefono e senza Internet, perché arresti domiciliari sono), con la possibilità d’incontrare una volta alla settimana la moglie nella biblioteca conventuale? Per i monaci la povertà è un concetto assoluto, paupertas altissima, che neppure contempla la possibilità di appropriarsi di qualcosa che non sia di nessuno, ad esempio una conchiglia sulla spiaggia. Neppure quella. La povertà, per i monaci, è espropriativa. Se inciampi in una banconota, quasi devi ritrartene. E nulla devi possedere, né da solo né in comune con altri. Né come tesoriere avido, né come partito. Sciolto.

Riuscirà Lusi, coccolato dai frati e da padre Giancarlo che lo ha ricevuto con benevolenza (“Per noi è un figlio di Dio, lo accogliamo con spirito evangelico”) a obbedire alla regola e a condividere la disciplina della vita monastica, scandita al mattino dalla liturgia delle Ore e della Santa Messa e nel pomeriggio dalla lavorazione artigianale del legno? Riuscirà Lusi a mortificare il suo animus possidendi? A maneggiare libri, penne, carte, posate e spazzolini servendosi delle cose ut non suae, come fossero non sue? Casa comune, mensa comune, nessuna proprietà, povertà totale e meditazione. L’occhio benevolo dei monaci gli sarà di conforto. E chissà che non impari qualcosa, Lusi, grazie alla lungimiranza non canzonatoria di un “perfido” giudice donna.

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