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May 31 2023
La sensazione comune è quella che vi sia un crescendo di comportamenti aggressivi, fortemente disturbanti o violenti ad opera di adolescenti. In realtà condotte prepotenti e impetuose sono sempre state presenti, quanto è cambiato concerne le modalità con cui questi agiti si manifestano e, soprattutto, come questi vengono percepiti dal contesto sociale.
Si pensi semplicemente alla lotta o al gioco della guerra, modalità che consentono al bambino l’acquisizione di abilità sociali anche più complesse affini all’ordine morale, quali il bene e il male, il rispetto reciproco o di ordine puramente collettivo, quali il riconoscimento dell’ordine gerarchico e il rispetto dei ruoli. Tali modalità di gioco, in grado di consentire anche uno scarico dell’aggressività e la possibilità di un confronto tra pari, vengono percepite dal contesto sociale come condotte di natura violenta, quando in realtà sono momenti di coeducazione, di scambio reciproco e di negoziazione di significati tra pari. I giochi di combattimento svolgono un ruolo importante nella formazione del bambino, consentendogli di mettersi alla prova, attraverso la finzione, in esperienze di confronto, di socialità, di gestione regolata dell'aggressività. Limitarsi a inibire questi giochi, ritenendoli semplicemente violenti non è una buona azione educativa. Il problema dell'aggressività infantile non è transitorio, il suo sviluppo appare relativamente stabile, non casuale e continuo nel tempo. Considerare tali comportamenti inaccettabili o da correggere immediatamente, può recare danno allo sviluppo sociale del bambino.
La situazione si aggrava se si pensa alla sempre più frequente esposizione dei bambini alla violenza passiva e alla impossibilità di poter gestire in modo diretto l'aggressività, così come avviene nel gioco motorio. Il gioco è per sua natura educante, in tutte le sue forme simboliche, drammatiche, individuali, costruttive, scientifiche e assume una valenza pedagogica determinante nel processo di sviluppo del bambino. Togliendo anche parte di queste possibilità si nega al bambino la possibilità di acquisire competenze sociali in ordine alle competenze che riguardano il proprio grado di sviluppo cognitivo ed emotivo. I bambini non possiedono un adeguato linguaggio simbolico ed emotivo, è proprio l’attività del gioco a consentirgli un confronto con la realtà immaginaria conservando una relazione con la vera realtà, ma consentendogli contemporaneamente di distaccarsi dalla prima. Il gioco è un autentico spazio potenziale utile non solo allo sviluppo psicologico, ma anche a quello emotivo e conoscitivo, a partire dall’intelligenza creativa, ovvero la capacità di inventare, produrre eventi e risolvere i problemi. Il gioco è quindi uno spazio che offre al bambino infinite possibilità per la formazione della sua personalità. Il diniego dinnanzi a determinate condotte ludiche, perché erroneamente associate dall’adulto contemporaneo alla violenza, non farà altro che portare ad un aumento della rabbia che verrà espressa a livello verbale. Nel bambino però la competenza verbale, intesa come la padronanza dei registri comunicativi corretti, è in fase di acquisizione, per cui ciò porterà inevitabilmente ad un aumento della rabbia, in quanto sarà costretto ad utilizzare un canale non adeguato che lo farà percepire come inadeguato.
Tutto ciò va ad inserirsi in un contesto educativo e sociale del tutto particolare, basato sul soddisfacimento immediato dei bisogni individuali e sempre meno collettivi, in un surplus di beni di facile accesso e in cui i genitori non sono in grado di tollerare la frustrazione dei propri figli. Molto genitori, difatti, non accettano liberamente le manifestazioni emotive dei propri figli senza intervenire e senza offrire loro indicazioni di comportamento. Sono permissivi e non pongono regole nella convinzione sbagliata che i bambini debbano crescere liberi da qualsiasi vincolo. Questi bambini cresceranno con un fragilissimo senso di onnipotenza che andrà in frantumi alle prime difficoltà, con il risultato di trasformarsi in un profondo e diffuso senso di angoscia e di inadeguatezza. L’accesso a un surplus di beni materiali concorre alla formazione di un Sé grandioso che poco riesce a mediare con le asperità del quotidiano. L’avere tutto e subito non consente di sviluppare il desiderio, di tollerare l’attesa, di progettarsi nel futuro, di darsi obiettivi e di trovare soluzioni anche creative per il raggiungimento degli stessi. La tendenza che andrà a svilupparsi sarà quella del consumo scevro da emozioni, con la conseguenza di far sentire i figli da una parte padroni del mondo e, dall’altra, di essere anestetizzati a causa del bombardamento sensoriale che va ad inibire il processo di rielaborazione delle informazioni. Questi bambini si sentiranno pertanto vincolati dal tutto e subito correndo il rischio di divenire dei piccoli narcisisti fragilissimi, incapaci di assaporare la gioia delle cose e ancor più incapaci di tollerare la frustrazione della perdita e del conflitto.
I figli, per costruirsi un’identità integra, necessitano di imparare a conoscere, riconoscere, gestire e modulare i propri stati emotivi. Senza questa decodifica rimarranno in balia di quanto provato, ma, al contempo, saranno anche spinti alla realizzazione immediata. Il problema non concerne quindi solo l’avere troppo, con conseguenze importanti anche sull’impossibilità di sviluppare capacità decisionali, ma quanto è pregnante è che essi sentono poco. I figli sentono poco il limite della gratificazione, la validità di una relazione significativa e la forza di un buon contenimento affettivo ed emozionale. Se non si abituano i bambini all’attesa non si consente loro di affrontare le frustrazioni e di trovare degli strumenti per gestirla. Se non permettiamo loro di stare da soli senza sentirsi soli, imparando ad utilizzare la creatività per sopperire alla noia, il rischio sarà quello di avere degli adolescenti non in grado di sopportare anche le più piccole sensazioni disturbanti. L’effetto sarà quello di dar luogo a quei comportamenti violenti indicati in apertura. Nell’aggressione i giovani tentano di percepire un’identità con la sopraffazione dell’altro, nel tentativo di modulare le proprie risposte emotive senza riuscirci. Attraverso l’atto violento tentano di attenuare il sospetto della rappresentazione di un Sé percepito come inadeguato e che si vergogna dei propri limiti e delle proprie paure. Un comune denominatore della rabbia adolescenziale è rappresentato dal forte bisogno di esprimere e comunicare dolore, sofferenza, angoscia, paura dell’abbandono. Spesso non si sentono capiti e questo non fa altro che rafforzare la convinzione di inadeguatezza e la conseguente paura a cui, in difesa, si risponde con rabbia ed agiti anche di natura violenta.