Château Galoupet
I vitigni della tenuta di Château Galoupet (Margot Mchn).
Green

La Provenza nel bicchiere

Granelli di terra e di sale si mescolano nel sussurro del vento, mentre le sfumature di verde degradano verso il blu del mare sullo sfondo. Château Galoupet è suolo vivo, un trionfo di natura che provoca i sensi: fa spalancare gli occhi, immersi nelle vezzosità dei fiori e degli arbusti, blandisce le narici con i suoi profumi, una sequenza di delicate intensità. Tiene svegli fino a tarda notte, ipnotizzati ad ascoltare i canti insonni dei gufi. Infine, placa la mente con una camomilla, figurarsi se industriale: arriva dal suo orto.

È in questo paradiso bucolico della Provenza, tra 77 ettari di boschi protetti, 69 di vigneti, un tappeto di saline più una spiaggia nel breve orizzonte, che Moët Hennessy (gruppo Lvmh) ha seminato e sta coltivando la sua visione: non limitarsi a creare un carnet di vini, ma favorire la biodiversità, un ecosistema che dialoghi con il territorio esaltandone i connotati e preservandone la ricchezza.

Pratica, parecchia, accanto a un oceano di teoria (un progetto, ci raccontano, di quasi 300 pagine): via i pesticidi e riconversione al biologico delle uve; un laghetto che luccica al sole dai tempi di Luigi XIV, rifugio per la pioggia e bacino per l’irrigazione; alberi che, cresciuti, faranno da scudo naturale contro gli schiaffi d’aria aizzati dai flutti; colonie d’uccelli e pipistrelli si occuperanno degli insetti molesti; alveari per ospitare le api, consentirgli di prosperare e moltiplicarsi. Il loro miele ben venga, però non è la priorità.

Château Galoupet contiene una prospettiva di sfaccettature che richiedono impegno e pazienza: «Dobbiamo ragionare come una start up, avere coraggio e visione» dice a Panorama con uno sguardo pieno di consapevolezza Jessica Julmy, la responsabile della tenuta, approdata qui nel 2019 quando aveva 34 anni. Precisione di radici svizzere, entusiasmo mediterraneo che si esprime in un lessico genuino, allergico alle urgenze da profitto del marketing: «Ci serve tempo, tanto. Questo luogo mancava d’amore» spiega. La storia di Château Galoupet è quella di un riscatto dall’abbandono: era usato soprattutto per eventi, matrimoni, feste a volume alto, una tortura di bassi per la fauna. Vari incendi lo avevano spento e rovinato, era vuoto sotto cenere.

«Per la sua rinascita, abbiamo cominciato daccapo». L’intento? Andare lontano: «Vogliamo organizzare sentieri aperti al pubblico, cartelli con informazioni sulle varie specie che sono di casa. Accogliere persone, farle dormire in una foresteria per seguire il laboratorio dedicato alle api, capire la conservazione e la cura dell’ambiente». Non il solito resort, clone di troppi gemelli: soggiornare sarà partecipare. Se ne parla tra qualche anno o quando il momento sarà maturo, come per le visite guidate.

Per cominciare sono pronti i primi vini, lessico liquido della cultura e la geografia del posto. Lo Château Galoupet Cru Classé Rosé 2021, con uve autoctone, somma di cremosità e sentori di pompelmo e di pesca, una nota finale salina. Un ensemble di frutta e di mare, gradevole sia come aperitivo che durante il pasto. Ha la caratteristica di svelarsi con lentezza, sorprende un sorso dopo l’altro, aggiunge piacere e complessità all’immediatezza.

La sua bottiglia è in vetro ambrato riciclato al 70%, un ulteriore segnale di deferenza alla natura. Un concetto cruciale nel Galoupet Nomade 2021, altro rosé (l’ossessione della Provenza), fresco con punte di mineralità: presenta un involucro piatto, dal peso di appena 63 grammi. È realizzato con plastica riciclata ripescata dall’oceano, interamente riciclabile, tappo compreso. Un’attenzione green e una comodità: lo si potrà trasportare ovunque, per esempio per berlo durante una gita, senza sovraccaricare lo zaino o ritrovarsi un allagamento di cocci appuntiti al posto di un brindisi. Un nomade di nome e indole.

«È molto probabile che verremo criticati, non saremo capiti da tutti per la scelta della bottiglia in plastica, ma bisogna liberarsi dai blocchi delle consuetudini per introdurre il cambiamento, per fare in modo che la sostenibilità sia più reale di un proposito accattivante» ragiona serio Mathieu Meyer, ingegnere agrario, demiurgo della metamorfosi della tenuta dopo ampie parentesi internazionali tra l’Australia e i Caraibi.

Riservato, competente, è un torrente quando racconta l’impianto di un vitigno o minuzie quali il diametro di una casetta per gli uccelli. Al rosé della Provenza, la sua nuova casa, ha dedicato la tesi del master. Come ogni storia eccezionale, anche quella di Château Galoupet è fatta delle mani che la scrivono.

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