Netflix, parla Reed Hastings: "Vi racconto la tv del futuro"

da Los Angeles

Più o meno a metà dell’intervista, Reed Hastings fa un gesto che un classico abbottonato Ceo, specie quello di un’azienda valutata in borsa circa 130 miliardi di dollari, non azzarderebbe davanti a un giornalista: avvicina una sedia, ci fa atterrare sopra le scarpe a punta, spinge la schiena all’indietro e continua a chiacchierare dondolandosi. Il suo non è un atto di scortesia, piuttosto un modo per rafforzare un’impressione resa già evidente dai modi amichevoli e diretti, dal giubbotto sportivo indossato sopra un’essenziale polo nera: il fondatore di Netflix, il nuovo sovrano assoluto dell’intrattenimento mondiale, è un personaggio rilassato, sicuro di sé ma senza prendersi sul serio. Un tipo «easy», informale, come lo descrive chiunque a Los Angeles nella sede labirintica della sua società. È qui che dà appuntamento a Panorama, in un palazzetto sfarzoso con vista su palme, grattacieli e ville: il solito repertorio assolato della città dei sogni. Dalla terrazza si scorge anche la mitica scritta di Hollywood, che scruta con ossequio il suo ultimo imperatore, capace di fatturare nel 2017 più di tutti i cinema degli Stati Uniti messi insieme. Circa 11,7 miliardi di dollari, contro gli 11,2 dei biglietti strappati al botteghino. Calcolo della rivista Variety, la bibbia indiscussa dello spettacolo.

Reed Hastings, 57 anni, è il ceo e cofondatore di Netflix.Netflix

Dalla posta allo streaming

Avviata in un sobborgo della California, nata per noleggiare dvd spedendoli per posta a casa dei clienti, Netflix ha indovinato la virata decisiva: puntare sullo streaming via internet. A prezzi accessibili, con la possibilità di chiudere l’abbonamento in qualunque momento. Così ha sconvolto riti e dinamiche del consumo digitale di contenuti, arrivando a marginalizzare la pirateria e a colonizzare 190 Paesi, dove porta in contemporanea i suoi prodotti: film, documentari vincitori di premi Oscar e serie televisive, alcune di culto globale, da Stranger things Narcos. A finanziare il catalogo, un budget complessivo mostruoso: otto miliardi di dollari solo per il 2018, che attirano divinità della settima arte come Martin Scorsese, David Fincher e Spike Lee o superstar quali Will Smith.

Ispirazione tricolore

Netflix supera i 117 milioni di abbonati, un milione lungo lo Stivale secondo gli ultimi dati della società di consulenza EY. Moltissimi di più gli spettatori effettivi, visti i traffici sotterranei del medesimo account tra amici, familiari, vaghi conoscenti. Il servizio poggia su una formula rodata che, lo confida a un tratto Hastings, occhi blu ipnotici tenuti sempre addosso al suo interlocutore, s’ispira alla cucina italiana: «Ci concentriamo» spiega «su pochi ingredienti, cercando di assemblarli incredibilmente bene, come fate voi con i vostri piatti. Costruiamo storie, dando la possibilità di vederle quando e dove si vuole, su qualsiasi dispositivo, senza interruzioni pubblicitarie. Una filosofia comune ai libri: non si legge un capitolo, poi si aspetta una settimana per quello successivo. Se una trama avvince, si vuole andare avanti per scoprire subito cosa succede. Netflix riflette l’indole umana».

State contribuendo a formare la cultura di questo tempo. Tramite i vostri programmi potete far passare messaggi come il rispetto per l’omosessualità o la parità tra uomo e donna, specie in aree poco sensibili a tali argomenti. Ne sente la responsabilità?

Lasciamo ai creativi di tutto il mondo la libertà di raccontare storie a modo loro. Ci rivolgiamo a target in passato trascurati, tra cui i giovani adulti, mettendo in conto che i nostri abbonati hanno una moltitudine di gusti e background. Siamo fieri che ciò significhi abbracciare una vastità di temi, perché l’inclusione è un nostro valore chiave.

Ha appena contraddetto il filosofo Karl Popper. La tv non è più una cattiva maestra? 

Contenuti dall’Italia, dal Brasile o dal Giappone, trovano sulla nostra piattaforma un’audience globale. Abbiamo dimostrato che se una narrativa è fresca, coinvolge, allora funziona a prescindere dal Paese d’origine. Questo processo aiuta il pubblico a imparare un po’ da altre tradizioni. 

Facebook è stato usato per orientare le scelte politiche dei suoi iscritti. Netflix detiene lo stesso potere?

Nessuno forza nessuno a guardare un contenuto. Se qualcosa non piace, si passa oltre. Il ventaglio di titoli che il nostro sofisticato algoritmo propone a ciascun utente, discende unicamente dai suoi gusti. Non si cura se è uomo o donna, che età abbia, dove viva. 

Raccogliete comunque moltissimi dati sulle preferenze di ognuno. Arriveremo al punto in cui un’intelligenza artificiale ci saprà suggerire l’unico programma perfetto per noi?

Penso sia improbabile. Le persone vogliono scegliere e farlo in base all’umore del momento. Un giorno hanno il desiderio di rilassarsi con una commedia, un altro preferiscono sfumature drammatiche. L’intelligenza artificiale è efficace nel recinto dei fatti, le emozioni sono complesse da decifrare.

Vi accusano di tentato omicidio. State davvero uccidendo la televisione tradizionale?

Sono le abitudini a essere cambiate. La BBC ha iniziato come radio e si è adeguata ai tempi. Nel giro di cinquant’anni, la tv lineare sarà molto più marginale e la maggior parte dei network si saranno trasferiti su internet. Il televisore del futuro assomiglierà a un grande iPad pieno di app.

«Serve flessibilità per evolvere, per passare dal noleggio di dvd allo streaming, dall’essere nazionali a internazionali, dal comprare contenuti da altri al produrli in autonomia. Per riuscirci, occorre costruire una cultura fondata sulla libertà»

L’amministratore delegato di Mediaset, Pier Silvio Berlusconi, immagina una polarizzazione: da una parte grandi player globali come voi, dall’altra quelli nazionali, abili nel produrre contenuti locali. Che in Italia, per esempio, continuano ad attrarre un vasto pubblico.

È una visione giusta, intelligente. Ciò che è locale non rappresenta un’area naturale per noi. Come non ci interessa l’attualità delle notizie. Puntiamo al tempo dello svago puro.

Per presidiarlo meglio, vi siete alleati con Sky.

Tradizionalmente eravamo grandi avversari. Abbiamo individuato una direzione per lavorare insieme. Loro hanno bisogno di reinventarsi su internet, di pensare a una vita oltre il satellite.

Netflix esiste da vent’anni. Nelle sue continue trasformazioni, qual è stato il cardine?

Nella mia precedente esperienza, da Ceo della società Pure Software, avevo fatto molti errori. C’erano troppe regole e processi rigidi. Serve flessibilità per evolvere, per passare dal noleggio di dvd allo streaming, dall’essere nazionali a internazionali, dal comprare contenuti da altri al produrli in autonomia. Per riuscirci, occorre costruire una cultura fondata sulla libertà degli impiegati.

Ovvero: ognuno è incoraggiato ad affermare cosa pensa. Qualcuno le ha mai detto che una sua idea fa schifo?   

Non con queste parole, perché mi sarebbe venuto da rispondergli «allora tu sei un idiota!», ma succede. Certo, la propria prospettiva va motivata, con il dialogo si capisce cosa non funziona. Tanti anni fa Ted Sarandos, oggi il responsabile dei nostri contenuti, mi ha chiesto un giudizio su un titolo. «È grandioso», gli ho risposto, allora ne ha comprate tantissime copie in dvd. Abbiamo speso parecchio, ma ai clienti non piaceva. Ne ho chiesto conto a Ted.

E lui?

Ha ammesso di averlo fatto perché entusiasmava me. Ma il suo compito era decidere la strategia giusta, non accontentarmi. In troppe aziende le persone pensano che il loro lavoro sia assecondare il capo. Noi siamo come una squadra di football, dobbiamo ingaggiare fuoriclasse in ogni ruolo.

Il terreno di gioco si fa sempre più competitivo. C’è Amazon con Prime Video, Disney ha la sua piattaforma di streaming all’orizzonte. Se avesse un bottone magico a disposizione, chi spegnerebbe?

Nessuno. Ci sono anche Facebook, YouTube, la Xbox, la PlayStation, la tv tradizionale. Vogliamo competere con la qualità: se produciamo serie e film grandiosi, continueremo ad avere successo.

Un momento dell'intervista di Hastings con Panorama.Netflix

Ha iniziato la sua carriera piazzando aspirapolvere porta a porta. Un ricordo di quei giorni?

Il premio di venditore del mese. Un momento memorabile. Erano i tempi del liceo, non avevo successo in molte cose, i miei compagni vincevano trofei legati allo sport, io no.

Poi è andato in Africa a insegnare matematica.

Sono io che, alla fine, ne sono uscito formato. Giravo in autostop tra Tanzania e Malawi, non era ancora il tempo delle armi, dell’Aids. Ho imparato il valore dell’indipendenza, a rimanere solo con me stesso.

Per un anno ha vissuto a Roma.

Con la mia famiglia, sull’Aventino. Per noi che venivamo dalla periferia, dalla piccola Santa Cruz, Roma splendeva del fascino avventuroso della grande città. Era meraviglioso esplorarla. Facevo avanti e indietro dagli Stati Uniti, arrivavo in aeroporto, vedevo le vecchie mura avvicinarsi mentre la macchina sobbalzava sui sanpietrini, mi sentivo a casa. L’idea è stata di mia moglie, che ha studiato l’italiano. Siamo sposati da 26 anni e a Roma abbiamo commesso l’errore più grande della nostra vita.

Quale?

Non essere rimasti per un altro anno.

Questo articolo è stato pubblicato su Panorama numero 15 del 29 marzo 2018 con il titolo “Veni, video, vici”.

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