Mario Draghi, uomo dell'anno

«Il triangolo? Nooo!»: un amico di famiglia, che conosce bene Mario Draghi, stronca così, ridacchiando, la voce del momento, che cioè il governatore della Bce potrebbe essere richiamato a Roma, dopo il (probabilmente) ambiguo esito del prossimo voto, a guidare un governo di larghe intese, cedendo il suo posto in banca a un tedesco e favorendo il passaggio di Mario Monti al posto di Herman Van Rompuy al vertice del Consiglio europeo. «Non diciamo sciocchezze, Draghi ricorda bene l’imbarazzante balletto Italia-Francia per liberare il posto di Lorenzo Bini Smaghi in Bce e fare spazio a lui. Figuriamoci un gioco di domino così articolato: è pura fantapolitica. E invece Mario è un uomo concreto».

Già, concretissimo. È il vero salvatore dell’euro e dell’Unione Europea, come il titolo di «uomo dell’anno» attribuitogli dal Financial Times e di «europeo dell’anno» conferito all’Assemblea nazionale francese gli riconoscono. A 65 anni, ne ha davanti altri sette di mandato al vertice della Bce. Può legittimamente considerare alla sua portata praticamente tutte le più importanti poltrone istituzionali del mondo, Onu compreso. Certo, il suo sogno è tornare prima o poi in Italia, in un ruolo di vertice, ma è un sogno, non una fregola.

«Quando Draghi disse che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l’euro e sottolineò “believe me, whatever it takes” cioè “credetemi, a ogni costo”, davvero diede una svolta alla storia europea» dice a PanoramaCorrado Passera, ministro dello Sviluppo economico. «Il vero miracolo l’ha fatto riuscendo a mobilitare la Bce e convincendo la Germania a seguirlo, senza rompere. Ed è grazie a lui che la costruzione europea si è rimessa in carreggiata. Draghi è fatto per questo genere di scenari, problematiche e soluzioni». Come dire: non a discutere di bassa cucina politica. E allora cosa farà nel prossimo futuro l’italiano più autorevole del mondo? E cosa avrebbe voglia di fare? È vero che sia affezionato all’Italia fino a rasentare la fissazione?

«Sì, Mario ama profondamente l’Italia, ma non lascerebbe mai il suo lavoro in Bce oggi, per di più con il rischio di infilarsi in un governo senza stabilità politica. Eventualmente se ne riparlerà alla fine del suo mandato a Francoforte» prevede Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, ex compagno di dottorato di Draghi al Mit (Massachusetts institute of technology). E un altro amico di quegli anni gli fa eco: «Adesso Draghi lascia cuocere tutti in questo marasma, alla fine della prossima legislatura sarà pronto a tornare in pista, sempre se lo vorrà ancora. Se poi anche la prossima legislatura dovesse finire male e l’Italia dovesse avere bisogno di un altro Cincinnato, beh, Draghi si considera un civil servant e potrebbe sempre rispondere alla chiamata».

«In generale, Mario ha molto pragmatismo politico» annota ancora Baldassarri. «La sua è proprio la formazione liberal del Mit, sappiamo che non esiste solo la politica monetaria ma anche quella fiscale, se si vuole arrivare alla piena occupazione. Per questo io lo chiamo san Mario Draghi: senza di lui l’Europa sarebbe implosa. Lui ha salvato la situazione, comprando tempo per l’unione politica che ancora non c’è. Adesso tocca ai governi, ammesso che vogliano e sappiano».

Un liberal refrattario agli ideologismi, insomma, «convinto della necessità di usare il punta-tacco, come nelle auto di una volta» dice di lui un altro suo amico, Gianni Pecci, che lo accolse in Nomisma quando Romano Prodi, incontrando Draghi e Baldassarri negli Stati Uniti da Franco Modigliani, dopo il Mit, li riportò in Italia lanciandoli nella futura carriera accademica. Il punta-tacco, ovviamente, tra rigore e sviluppo.

E le immagini per descrivere la strategia di Draghi si sprecano: «Ha fatto come quei giocolieri che strappano via la tovaglia dal tavolo senza fare cadere i bicchieri di cristallo che ci sono sopra» dice un altro suo amico, alludendo ai rapporti di Draghi con la Germania. Del resto lui stesso, rispondendo al Financial Times sul tema delicatissimo dell’opinione pubblica tedesca eurodiffidente, ha spiegato di essere riuscito a dimostrare come non ci sia «nessun trade-off tra le politiche fiscali di austerità, da un lato, che devono proseguire, e la crescita o il recupero di competitività dall’altro. La restrizione fiscale può provocare una contrazione economica e un conseguente disagio sociale sul breve periodo, ma nel medio produce risultati positivi».

Sarà... Però Draghi ha un asso nella manica, anche di fronte al cancelliere Angela Merkel e alla Bundesbank: la forte delega che gli arriva dai suoi amici americani. Infatti predica tedesco e razzola americano. È questa la differenza, la svolta, rispetto al predecessore in Bce, il francese Jean-Claude Trichet, molto più germanofilo.

E questa copertura che gli Usa proiettano su Draghi si deve a molti fattori e relazioni. Innanzitutto quelle che risalgono agli anni al Mit, dove ebbe per compagno di studi Ben Bernanke, attuale governatore della Riserva federale, e divenne amico di Stanley Fischer, che fu suo professore e relatore della tesi di Bernanke. Altre amicizie americane sono legate all’esperienza in Goldman Sachs: quelle con Timothy Geithner, convinto paladino della stabilità dell’euro ma anche della ripresa dell’economia europea, e Robert Rubin, mentore sia di Geithner (che con Rubin fu sottosegretario) sia di Henry Paulson, a sua volta segretario al Tesoro con George W. Bush.

In favore di Draghi, Rubin si è per esempio schierato ufficialmente da oltre un anno (anche sullo spinoso, e finora perdente, fronte degli eurobond, auspicati da Draghi e osteggiati da Berlino) con un editoriale sul Financial Times dal titolo «La Bce ha ragione a chiedere più azione nell’eurozona», dove tenne a specificare in un inciso di essere un amico personale del presidente della Bce. Parole che equivalgono a fatti concreti. «Però, attenzione» ammonisce Giulio Sapelli, docente di storia economica a Milano, collega di Draghi per anni nel consiglio Eni «per lui l’America è una filosofia, una passione, non una subalternità». E in particolare lo irrita venire bollato come uomo della Goldman Sachs. Ci ha lavorato tre anni, contro i 20 passati nello Stato. «Sono un grand commis» preferisce dire di sé.

Pur essendo un uomo facoltoso, in pieno stile Ciampi, Draghi applica una buona dose di sobrietà anche alla vita quotidiana: «La laurea del figlio Giacomo è stata festeggiata a Milano in pizzeria» sintetizza un amico. A Roma abitava in una casa ai Parioli, bella ma niente di speciale: 150 metri quadrati. Dai tempi della Goldman ne ha conservata un’altra a Londra. Ma nel poco tempo libero gravita volentieri in Italia, più a Milano, dove si è laureato alla Bocconi il figlio Giacomo, classe ’82, economista e banchiere in Morgan Stanley (Londra), e dove vive la figlia Federica, di qualche anno più grande, economista e biologa, oggi ricercatrice alla Genextra, la società biotech di Francesco Micheli.

«Per Mario la famiglia è davvero l’unico rifugio sicuro, dove sa di potersi fidare. La moglie, Serena, si divide prevalentemente tra Milano e Francoforte con qualche puntata a Roma» dicono di lui. È legato ai riti familiari, abitudinario sulle cose che considera affidabili (per esempio, il suo dentista è a Padova, città della moglie, ed è lì che invariabilmente Draghi va quando ha un problema). Ha uno spiccato senso dell’umorismo: sulla sua scrivania di casa, a Roma, per esempio, spicca a testimoniare un notevole senso dell’umorismo il tapiro d’oro preso nel 2008 da Striscia la notizia dopo l’attacco che gli aveva mosso il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga.

Un piccolo assaggio delle asprezze politiche alle quali si esporrebbe qualora volesse tornare in Italia a governare. Draghi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, stava arrivando in auto nel suo ufficio romano di via Nazionale, leggendo tranquillamente Golf digest, rivista cui è fedele. Valerio Staffelli lo abbordò dal finestrino dell’auto: «Cossiga ha detto che lei non potrebbe fare il presidente del Consiglio perché venderebbe tutto ai suoi amici americani... Io ci sarei rimasto male» provocò Staffelli. E Draghi: «Anche io ci sono rimasto molto male. Ma lei ci crede a quelle cose che ha detto Cossiga?». E Staffelli: «Io? Io spero di no, perché lei è il governatore della Banca d’Italia e io spero proprio che non sia così». «Bravo» concluse Draghi.

In realtà, contrariamente all’immagine che ha («Nessuno riesce a leggere dietro quella faccia da poker» ha detto di lui Carsten Brzeski, economista olandese), Draghi non è un gelido. Legge i giornali, si diverte per il gossip, ha pochi amici ma fidati, con cui ogni tanto apprezza bere un buon bicchiere di vino; ed è affezionatissimo a Carlo Azeglio Ciampi. Non ha mai voluto costruirsi cordate però: «Mi scelse proprio perché voleva valorizzare le risorse interne; e mi ha insegnato che un capo riesce sempre a fare il fuoco con la legna che ha» ricorda Domenico Casalino, oggi amministratore delegato della Consip (la società del ministero dell’Economia che si occupa di pubblica amministrazione), che ha lavorato per Draghi nove anni al Tesoro. «Quando decise di fare sviluppare un nuovo modello di calcolo per il fabbisogno dello Stato, cercò tra i funzionari del ministero e pescò me, scendendo di quattro livelli rispetto al suo. Ed entrò nel merito: ricordo la sua grande capacità di modellizzare i processi, lavorando personalmente con Mathlab, uno dei software matematici più evoluti».

«Anche nella gestione delle risorse interne» annota un altro Ciampi boy, Gianluca Garbi, già amministratore delegato dell’Mts e oggi della Banca Sistema, «è un decisionista ma non fa pesare al perdente di avere perso. Oltre ad avere una straordinaria capacità di lavoro». Anche perché è un insonne fisiologico. Tre ore gli bastano, per il resto legge, studia, scrive e riordina le idee. Per il momento, tutte rivolte all’Europa.

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