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Dopo Mario Draghi

Dopo Mario Draghi

L’editoriale del direttore

Il presidente del Consiglio con il Corriere è stato chiaro. Di restare a Palazzo Chigi si è stancato. Resta da vedere per chi suonerà la campana.


Bisogna riconoscere che quando parla, Mario Draghi parla chiaro. A differenza del predecessore, le sue conferenze stampa si limitano allo stretto necessario e le sue interviste sono più uniche che rare. Tuttavia, al contrario di Giuseppe Conte, quando apre bocca il presidente del Consiglio non gira intorno agli argomenti e non usa formule astruse, tipo «la caducazione della concessione» per dire che si vuol togliere Autostrade ai Benetton (cosa che a onor del vero, nonostante le promesse, non è ancora accaduta, e in compenso, a distanza di quattro anni dal crollo del ponte Morandi, agli imprenditori veneti sono stati concessi altri favori).

No, Mr. Bce dice poco, ma quel poco va dritto al punto e questa è la sua forza, ma forse è anche la sua debolezza. Prima di Natale, in una conferenza stampa di saluto in vista di fine anno, si lasciò sfuggire la battuta sul «nonno della Repubblica», che tutti interpretarono come un’autocandidatura al Quirinale. Accompagnata da un giudizio sul lavoro fatto in un anno che pareva tanto un bilancio a conclusione dell’esercizio, e dall’ipotesi che la prosecuzione di ciò che restava da fare poteva essere affidata anche ad altri, la frase gli valse subito il premio «gaffe dell’anno». Ma soprattutto gli costò la poltrona di capo dello Stato, perché da lì in poi i partiti fecero ogni cosa per legarlo alla sedia di Palazzo Chigi, per paura che il trasloco si traducesse in una fine anticipata della legislatura.

Come si conviene nelle feste comandate, Draghi è tornato a parlare a Pasqua, con un’intervista al Corriere della Sera e anche in questo caso si è fatto scappare un paio di frasi, entrambe definitive, proprio come a Natale. La prima diciamo che era scontata, ma proprio perché scontata non la si può leggere che in un modo. Al direttore del Corriere che gli chiedeva se fossero fondate le voci di una sua stanchezza per le liti nella maggioranza e per il ruolo, Draghi ha ribattuto che non lo erano affatto.

Del resto, che avrebbe potuto dire il capo di un governo di un Paese ancora alle prese con il Covid, impegnato a contrastare una guerra che rischia di infiammare l’intera Europa e che minaccia di lasciare il segno sui bilanci di famiglie e imprese? Sì, non ne posso più e non vedo l’ora di scappare da questo posto? La risposta, per quanto netta, va presa al contrario, soprattutto se accompagnata da una seconda che pare una smentita della prima.

Alla richiesta di chiarire se avesse intenzione di candidarsi o se prevedesse la possibilità di una prosecuzione nell’incarico dopo le elezioni del prossimo anno, il presidente del Consiglio è stato anche in questo caso netto, con poche parole che sono suonate come un «no, grazie». Nei progetti futuri dell’ex presidente della Bce non c’è la formazione di un suo partito e neppure l’idea di un bis. Il senso è: non sono un Mario Monti qualsiasi, ho già dato e non ho intenzione di ripetermi.

Le affermazioni del premier, a cui bisogna riconoscere che non manca il dono della determinazione, pongono però due problemi. Il primo è piuttosto evidente: a chi toccherà dopo di lui? Premesso che abbiamo esaurito i tecnici a disposizione e con Draghi ci siamo giocati la carta più autorevole, non resta che tornare a presidenti del Consiglio politici. E qui abbiamo un bel problema, perché a distanza di meno di un anno dalle elezioni, non pare avanzare nessun papabile. Nel passato, certe cose si sapevano ben prima che accadessero.

Nel 2001, per esempio, dopo cinque anni di Ulivo con una successione di governi che avevano visto avvicendarsi Romano Prodi, Massimo D’Alema (due volte) e infine Giuliano Amato, anche ai sassi era noto che avrebbe vinto Silvio Berlusconi. E così pure nel 2006, quando dopo le beghe nel centrodestra, nessuno aveva dubbi sul fatto che sarebbe stata la volta del centrosinistra. Insomma, per anni le cose sono state chiare mesi e mesi prima, ma da che sono spuntati i governi del presidente e le maggioranze variabili, e persino le ammucchiate inimmaginabili (come 5 stelle e Lega, sostituita un anno dopo da Pd e pentastellati), tutto è possibile. Purtroppo, a ciò si aggiunge una carenza strutturale di leader.

Nel centrodestra la competizione fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni non lascia intravedere nulla di buono, se non una sfida dove entrambi rischiano di farsi male e di rimanere al palo, divisi alla meta. Lo stesso si può dire del centrosinistra, dove tra un Enrico Letta debole e un Giuseppe Conte debolissimo, non è possibile immaginare chi alla fine sarà il capo della coalizione, se il primo, il secondo o un terzo al momento sconosciuto.

L’ipotesi più probabile è che, dopo il voto, soprattutto se verrà cambiata per l’ennesima volta la legge elettorale per sceglierne una proporzionale, la formazione del governo sarà un mercato delle vacche, con la scomposizione dei poli, per relegare all’opposizione le ali ritenute più estreme. Detto in parole povere, il rischio è che Fratelli d’Italia sia lasciato fuori dalla porta anche se al momento è il partito con il maggior numero di consensi, e che nasca un esecutivo multicolore, con dentro un pezzo di centrodestra e un po’ di centrosinistra, con ciò che ne consegue.

Ma se questa è la più probabile conseguenza della decisione di Draghi di sfilarsi dalla corsa elettorale, poi nasce naturale un secondo passaggio: visto che il premier non si candida e non vuole fare il bis, una volta lasciato Palazzo Chigi che farà? Lui probabilmente risponderebbe con una delle sue frasi a effetto, dicendo che non ha problemi di ricollocazione oppure che può fare il nonno, questa volta non della Repubblica, ma dei suoi nipoti. Tuttavia è chiaro che Draghi non ha alcuna intenzione di mettersi in panchina. Fallita per inesperienza politica l’operazione di conquista del Quirinale, al presidente del Consiglio resta l’opzione internazionale.

In principio si era pensato al ruolo di presidente della Commissione Ue oppure a quello di presidente del Consiglio europeo. Ma né il posto di Ursula von der Leyen né quello di Charles Michel paiono particolarmente appetibili e poi entrambi si libereranno troppo in là, e dopo la prossima primavera il premier sarebbe costretto a restare fermo un giro. No, la poltrona più facile da conquistare è quella di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato. Di regola, l’incarico spetta a ex primi ministri europei e per questioni di rotazione stavolta toccherebbe a un italiano.

L’incarico pare piacesse a Matteo Renzi e pure a Paolo Gentiloni ed Enrico Letta, tutti muniti di curriculum adeguato. Ma chi per un verso, chi per un altro sono ritenuti poco adatti, o per le strette relazioni che hanno intessuto o per i ruoli che attualmente ricoprono. Draghi, al contrario, sarebbe perfetto, anche perché da quando la Russia ha invaso l’Ucraina pare già essersi calato nel ruolo, indossando l’elmetto, trasformandosi da colomba in falco.

Sì, il presidente del Consiglio con il Corriere è stato chiaro. Di restare a Palazzo Chigi si è stancato, finirà il mandato e cederà volentieri ad altri la campanella. Purtroppo per noi e per il Paese resta da vedere per chi suonerà la campana. A chi toccherà in eredità un’Italia con più debiti e più problemi e un’Europa che, a prescindere da chi vincerà la guerra, sarà nei fatti la vera sconfitta, schiacciata fra un’America che sta cercando di riconquistare il ruolo di gendarme del mondo, e un blocco asiatico guidato dalla Cina che di quel gendarme si vuole sbarazzare in fretta.

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