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Bettino Craxi (Ansa)
Politica

Storia riveduta e scorretta del signor Bettino Craxi (e di questi nostri anni)

Da Panorama del 25 novembre 1999

Bettino Craxi è nato a Milano il 24 febbraio 1934. Sposato con Anna, ha due figli, Stefania e Vittorio (detto Bobo). Diventa segretario del Psi il 14 luglio 1976 (la svolta dell' hotel Midas), succedendo a Francesco De Martino. Resta alla guida del Psi fino al 1993. Il 15 dicembre 1992 riceve il suo primo avviso di garanzia. Nel 1994 lascia l'Italia e da allora vive nella sua villa di Hammamet, in Tunisia. Ha due condanne definitive: una per le tangenti sulla metropolitana milanese (4 anni), l'altra per Eni-Sai (5 anni e sei mesi).

A quasi sette anni dall' inizio di Mani Pulite, il nome di Bettino Craxi, lungi dall'essere consegnato ai libri di storia, scatena ancora baruffe interminabili e spacca in due l'opinione pubblica.

Si trattasse soltanto di un caso politico tra gli altri, lo psicodramma non avrebbe senso e giustificazione. Ma se la semplice eventualità di un ritorno in Italia di Craxi anima lo spettacolo mediocre di furie giustizialiste residuali ma pur sempre incontenibili e di reazioni smodate al limite della paranoia politica, vuol dire che il caso Craxi appartiene piuttosto alla sfera della psicopatologia di una collettività che in passato ha evocato un Orco su cui scaricare le sue angosce più profonde, ma che dal fantasma di quell' Orco è destinata a essere inseguita fino a che la storia non prenderà il posto della leggenda nera e della mitologia demonizzante.

Sì, l' Orco. Negli anni del furore Craxi era, a tutti gli effetti, un orco cattivo, personificazione di ogni male e di ogni turpitudine morale prima ancora che politica. Sulle colonne dell' Indipendente di cui era direttore, Vittorio Feltri ritagliò su Craxi la figura del "Cinghialone" (più tardi Feltri ammetterà che il Cinghialone si era trasformato nel "caprone espiatorio" sul quale scaraventare ogni genere di colpa). L'Espresso diretto da Claudio Rinaldi affidò alla matita di Sebastian Kruger, definito come "il re della caricatura canagliesca", il compito di dipingere una copertina del settimanale in cui veniva raffigurato un Craxi mostruoso, torvo, repellente, marchiato da un titolo che sottolineasse l'identità non più umana dell' Orco terrorizzante: "Bestiale". L'Orco, il Cinghiale, la Bestia. Sin da quando era apparso sul proscenio della vita politica nazionale, Bettino Craxi aveva ispirato odii profondi e avversioni incontrollabili e a nessun democristiano, nemmeno al culmine della guerra fredda, era mai capitato, come invece capitò al leader socialista, di essere eletto a oggetto di ostilità feroce in una Festa dell' Unità, nei cui stand gastronomici spiccava la ghiotta specialità della "trippa alla Bettino".

Del resto a nessun leader socialista era capitato di essere bollato come "un pericolo per la democrazia" da un leader comunista: ma proprio questo aveva detto di Craxi Enrico Berlinguer.

Il fatto è che nel ventre molle della cultura di matrice comunista il "craxismo" non era più socialismo, il Psi non era più il Psi perché una banda di alieni, secondo quella nuova mitologia, si era impossessata di un simbolo glorioso per farne un covo di malaffare. Nella sua versione più sofisticata, questa teoria dell' invasione veniva chiamata "mutazione genetica". Ed era questo bubbone tumorale che doveva essere reciso ed estirpato.

Il caso Craxi divenne appunto questo: un gigantesco rito collettivo di espulsione delle cellule maligne che si diceva avessero invaso e colonizzato il corpaccione dell' Italia. Nessun altro protagonista di Tangentopoli divenne bersaglio di animosità tanto diffuse. Bruno Vespa racconta nel suo recente Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia che "alle cinque del pomeriggio di giovedì 17 dicembre 1992" una piccola folla "aspettò che Craxi arrivasse alla sede del partito in via del Corso. "Scemo", "Buffone", "Ladro", "In galera". Sul leader socialista, che fino a quel momento era stato uno degli uomini più potenti d' Europa, piovvero insulti, fischi, monetine. Riuscì a entrare in ufficio grazie alla scorta della polizia". Qualcosa di analogo esplose nei giorni attorno al 29 aprile, quando la Camera (allora non usava la retorica del rispetto delle prerogative parlamentari e l'organo della sovranità popolare democraticamente eletto veniva chiamato comunemente "Parlamento degli inquisiti": non dei "condannati", ma semplicemente degli "inquisiti") negò l' autorizzazione a procedere contro l' oramai ex segretario del Psi. Le cronache raccontano che l'orchestra di Santa Cecilia interruppe le prove della Grande Messa in do minore di Mozart per esprimere "amarezza e delusione per la votazione della Camera". Cortei di studenti sciamarono per le strade di Roma e di Milano, Ugo Intini venne riconosciuto, circondato e fatto oggetto di insulti: "Lo salva l' intervento della polizia" si legge sui giornali. La sera del voto alla Camera, un manipolo di partecipanti a un comizio di Achille Occhetto in piazza Navona raggiunse il vicino Hotel Raphaël, "tana" dei craxiani, aspettò l' uscita del Cinghialone e tra slogan irridenti e feroci scagliò davanti alle telecamere monetine e banconote all' indirizzo dell' Orco: "Ruba anche queste". I commenti del giorno dopo usciranno a lutto. Per Eugenio Scalfari si trattava nientemeno che del "giorno più grave della nostra storia repubblicana, dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro": motivo sufficiente per auspicare la cacciata definitiva di una "marmaglia che ancora ingombra e ammorba le istituzioni". Sempre sulla Repubblica si lesse che non si vede l' ora di "disfarsi di queste bande di approfittatori e di avventurieri". Giorgio Bocca scriveva che "Bettino Craxi ha usato lo Stato come un suo possedimento personale". Ci voleva il castigo esemplare, la punizione inflessibile.


Quando, due anni dopo quei fatti, Paolo Rossi intonerà in una trasmissione di Piero Chiambretti i versi di una canzone in cui si ingiungeva a tutti gli uomini dell' ancien regime di raggiungere il loro Al Capone "ad Hammamet", il pubblico esplose, catturato da un vortice turbinoso di autoesaltazione in cui con le mani e con i piedi si batteva il ritmo con soddisfazione selvaggia: "A Hammamet, a Hammamet". Non c'entrava il profilo penalmente specifico delle accuse rivolte a Bettino Craxi dalla procura milanese. Non era in questione l' entità e la concretezza "misurabile" delle malversazioni eventualmente commesse dal leader socialista, dal suo entourage e dai dirigenti, funzionari e amministratori di un partito coinvolto, a volte di più, a volte di meno, a volte come gli altri partiti, nel sistema delle tangenti e delle mazzette. C'entrava un odio politico tutto particolare e tutto rivolto contro il "craxismo". Giulio Andreotti, per esempio, accusato di essere "organico" alla criminalità mafiosa, venne trascinato in una vicenda giudiziaria dai contorni decisamente più gravi di quelle incentrate su ruberie e malaffare: l'essere coinvolto in storie di omicidi e di stragi non è forse più grave che essere implicati nel ladrocinio del pubblico denaro? Certo, ma mai Andreotti, anche quando le sentenze assolutrici dei tribunali erano ben lontane, è stato fatto bersaglio di un' avversione così esplicita e rivendicata. Andreotti poteva essere temuto, eventualmente ritenuto responsabile di un uso abnorme e aberrante della ragion di Stato, dipinto come Belzebù e come genio del Male. Ma si trattava di sentimenti che scaturivano dal riconoscimento della natura politica, seppure criminalmente politica, delle sue azioni. Con Craxi, no. Con Craxi non si intravedeva più un fine cui subordinare mezzi discutibili, ma uno scenario infernale in cui il mezzo aveva divorato il fine e in cui l' arricchimento personale era diventato criterio e misura di ogni cosa, segno di una degenerazione nell' amoralità più sconcertante, di una scivolata nell' edonismo più arrembante, volgare, greve, cafone, esibizionista.

Il "craxismo" diventava la cifra dei "gaudenti" anni Ottanta e il suo ripudio apparve come una cerimonia di purificazione che doveva espellere la tentazione del passato. Perciò Mani pulite ha rappresentato una versione simbolica di Piazzale Loreto dove, attraverso l'abbattimento dell' idolo e l' umiliazione del suo cadavere, doveva realizzarsi il lavacro nazionale, il ritorno nell' innocenza violata, l'attribuzione della Colpa all'uomo cattivo e ai suoi sodali. Mai Severino Citaristi e Primo Greganti sono stati fatti oggetto di dileggio e di furore. Craxi sì. L' elaborazione della differenza tra soldi finiti nelle casse del partito e soldi usati per l' arricchimento personale e per condurre una vita da nababbi metteva nell' ombra il problema dell' origine illecita dei finanziamenti e convogliava l' attenzione nazionale sull' uso che di quei soldi veniva fatto. La questione politica del sistema delle tangenti diventava la questione morale della destinazione dei soldi e del motivo (nobile o ignobile) per cui l' illecito era stato commesso. Per questo il ritorno di Craxi fa paura, crea incubi, appare come un pericolo troppo grande. Per questo negli anni del Grande terrore l'opinione pubblica sembrava talmente poco disposta ad accettare ragioni che non fossero quelle dell' emotività e della pulsione punitiva da non reagire nemmeno di fronte a macroscopiche distorsioni della verità e del buon senso. Quando in un libro di testo si arrivò a paragonare Craxi a Hitler, la cosa apparve come una manifestazione di ingenuo folclore e non come la spia di una malattia della memoria e della percezione storica delle vicende dell' Italia repubblicana. E non ci furono soverchie reazioni nemmeno quando un pubblico ministero come Paolo Ielo arrivò a definire Craxi, e non in una taverna ma in un' aula del tribunale, "criminale matricolato". Francesco Rutelli, candidato sindaco a Roma, nel 1993 di certo non arretrò inorridito di fronte ai voti in arrivo da molti eredi della Dc, ma quando venne a sapere che Craxi si era pubblicamente espresso per la sua elezione, si mise a tuonare come un ex libertario di matrice radicale non avrebbe mai dovuto fare: "Vorrei vedere Craxi prendere il rancio nelle patrie galere". In quel clima vennero di buon grado accettati persino i sarcasmi grossolani sullo stato di salute di un uomo che non stava granché bene e la stampa nazionale non fiatò quando il popolaresco Antonio Di Pietro infieriva sul "foruncolone" che stava molestando non solo la vita di Bettino Craxi ad Hammamet ma anche la vita di una nazione al tempo ancora china al cospetto del grande inquisitore in versione campagnola. Un Paese in cui fioccavano le abiure del craxismo recitate dai craxiani di più stretta osservanza e le riabilitazioni dei craxiani che avessero accettato il rito di sottomissione ai nuovi potenti. La Prima repubblica morì in questo groviglio di bugie e di demonizzazioni. Rileggere quella storia è, più che un optional, l' unico modo per guarire dai disturbi di una memoria scomoda.

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