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February 19 2015
Oltre che uno scrittore di successo, il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, fu anche uno straordinario fotografo. Nel volume Lewis Carroll, scrittore e fotografo, edito da Postcart, Diego Mormorio ripercorre la parabola artistica e figurativa del grande autore.
La scoperta della fotografia
Tutto comincia al Christ Church College di Oxford, dove il nostro reverendo insegna matematica. Fu l’amico Reginald Sothey a introdurlo all’arte della fotografia allora nascente. I mezzi e le tecniche erano ancora rudimentali e una vera estetica dell’immagine fotografica aspettava ancora di essere inventata.
La complessità del processo avvicinava la fotografia più all’artigianato meccanico che all’immediatezza del gesto artistico vero e proprio. L’idea di cogliere un’istante o una scintilla di verità sfiorava appena i pionieri del mezzo che nelle loro immagini ricercavano piuttosto la composizione dei corpi e il bilanciamento dei pieni e dei vuoti, proprio come negli stilemi tipici della pittura.
Carroll ne fu folgorato. La passione per il teatro, che sempre lo aveva infiammato (e a cui mai aveva potuto dare pieno sfogo dal momento che calcare un palcoscenico non si addiceva a un reverendo), trovava finalmente uno sbocco: nella fotografia avrebbe riversato il suo gusto per la messa in scena.
La passione per i bambini
Ma la fotografia fu anche il mezzo che gli permise di coltivare una passione ben più delicata e controversa: quella per i bambini, i suoi soggetti preferiti. Di fronte alle immagini delle ragazzine discinte che amava ritrarre, furono in molti a farsi l’idea che egli fosse un pedofilo represso, meno quelli convinti di trovarsi di fronte a castissimo santo adoratore di bambini.
La verità, però, andrebbe ricercata altrove. Da una parte è innegabile riscontrare nell’immaginario di Carroll quelle che oggi la psicologia indicherebbe come sublimazioni e fantasie a sfondo sessuale. Dall’altra, non sta a noi esprimere pareri clinici, né tantomeno giudizi, sulla vita interiore del reverendo. Quel che è certo, è che i bambini erano in tutto e per tutto i suoi esseri umani preferiti. Niente lo incantava più del loro avventurarsi in mondi di fantasia, della loro capacità di astrazione, e del loro dialogo ininterrotto con la natura. I bambini erano parte integrante di quel mondo amato dall’inconscio che Dodgson non smise mai di frequentare con le poesie, le fotografie e i giochi di parole di cui Alice nel paese delle meraviglie è l’incarnazione suprema.
Una passione innocente?
In compagnia dei suoi piccoli amici, Lewis Carroll riusciva sempre a ritrovare quei luoghi sospesi fra sogno e realtà da cui ci si allontana irrimediabilmente con l’età adulta, ma che per lui era di vitale importanza continuare a frequentare. Come scrive giustamente Mormorio, «Era un uomo che si divertiva soprattutto con la matematica e le bambine, per le quali scriveva favole e faceva fotografie. Queste due cose – le favole e le fotografie – avevano per lui la stessa sostanza: fin dall’inizio, l’una presupponeva l’altra. La qualità immaginifica dei suoi racconti è tutt’una con la letterarietà delle sue fotografie– vivono nello stesso mare».
Chissà se una società più o meno perbenista avrebbe fatto bene al talento e alla psiche del reverendo Dodgson. Quel che è certo è che quella vecchia volpe è riuscita ad attraversare il suo secolo senza danni, e a consegnarci una delle opere più straordinarie della storia della letteratura mondiale.