Le sbarre anti-prostitute fanno schifo. Ma battere in strada ancora di più

Io credo che la prostituzione andrebbe regolamentata. In Italia, seppure legale, l’attività è di fatto criminalizzata. In Austria o in Germania, prostitute e prostituti – forse “sex worker” è il termine più comodo nella sua neutralità – pagano le tasse, hanno diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione.

Eppure, comprendo le ragioni che inducono un sindaco, com’è accaduto a Verona, a piazzare un recinto su una strada dedita abitualmente al commercio del sesso e della droga. Dopo l’ennesima protesta degli abitanti del quartiere, dove abitano decine di famiglie e sorge anche una scuola, il primo cittadino ha accolto la loro proposta piantando delle sbarre di ferro anti-prostituzione. “Apertura al pubblico dalle 7.30 alle 20. Chiuso i festivi tutto il giorno”.

Le cancellate non sono mai una soluzione. Ma che cosa fare quando un assetto normativo schizofrenico, come quello italiano, ha imposto la chiusura delle “case di tolleranza”, così si chiamavano, per condannare i sex worker alla strada? La legge Merlin ha fallito. Se non si parte da questa consapevolezza, sarà difficile migliorare l’esistente.

La prostituzione è viva come e più di prima, non coincide soltanto con lo sfruttamento, ci sono decine di migliaia di uomini e donne, più o meno giovani, che si arrabattano così per campare. Spesso campano molto bene. Perché non squarciare il velo di ipocrisia e garantire anche a loro delle condizioni di lavoro dignitose? La strada moltiplica i rischi per la salute, per non parlare degli episodi di violenza e di abuso da parte dei clienti e delle stesse forze dell’ordine. Come possiamo tollerare che questo accada a pochi chilometri dalle nostre case?

Le sbarre di ferro fanno schifo, siamo d’accordo. Ma il degrado, cui sono condannati i lavoratori e le lavoratrici del sesso, fa ancora più schifo.

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