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La forma dell'acqua - The Shape of Water: la recensione

20th Century Fox Italy distribuzione, ufficio stampa film Fusion Communication, ufficio stampa 20th Century Fox Italy
L'intensa Sally Hawkins nella parte di Elisa accanto al suo "mostro"
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La misteriosa creatura marina emergente dall'acqua ricorda il "Mostro della Laguna Nera" di Jack Arnold
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Il muto dialogo tra Elisa (Sally Hawkins) e l'essere anfibio catturato dai militari
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La sorprendente e sconvolgente scoperta di Elisa (Sally Hawkins) nel laboratorio segreto dove svolge le pulizie
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Elisa (Sally Hawkins) con lo scienziato Robert Hoffstetler (Michael Stuhlbarg)
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Guillermo Del Toro dialoga sul set con Michael Shannon che nel film veste i panni del perfido colonnello Strickland
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Elisa (Sally Hawkins) con l'amica Zelda (Octavia Spencer)
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Elisa (Sally Hawkins) dietro il vetro che la separa dalla creatura marina nella splendida linea fotografica del film firmata da Dan Laustsen

UPDATE: La forma dell'acqua - The shape of water di Guillermo del Toro ha vinto l'Oscar 2018 come miglior film dopo aver vinto il Leone D'oro 2017. Qui la nostra recensione pubblicata il 18 febbraio scorso.

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Riflessioni. C’è del tenero, del terribile e dello straordinario ne La forma dell’acqua – The Shape of Water (in sala dal 14 febbraio, durata 123’) di Guillermo del Toro.

Il film dell’altrove ottico, delle 13 nomination agli Oscar e del Leone d’oro vinto a Venezia lo scorso settembre che ha proiettato il suo regista alla presidenza di giurìa della prossima Mostra del cinema (pochi giorni fa l’annuncio).

Tutto meritato? Tutto accettabile e ragionevole? In gran parte sì. Forma e contenuto si combinano in una sorta di energia caotica di forte magnetismo e capacità d’attrazione, in un cinema dall’inclinazione fantasmagorica e d’effetti fascinosi.

Gli incubi sotterranei del laboratorio segreto

E l’acqua? È silenziosa, invasiva e lustrale nella Baltimora del 1962, avvolta nelle foschie della Guerra Fredda, percossa dalla crisi di Cuba, immersa nello strano sogno kennedyano che s’infrangerà nel sangue l’anno successivo. Eppure è là, tra gli incubi sotterranei di un laboratorio segreto, congegnato per sovrastare il nemico sovietico con un esperimento su una arcana, orribile creatura anfibia catturata in Amazzonia, che nasce e si espande la favola di Elisa (Sally Hawkins nella parte è deliziosa).

La cenerentola muta scopre il suo “principe”

Lei, piccola insignificante cenerentola muta, è addetta alle pulizie e s’accompagna ad altri reietti, la collega nera Zelda (Octavia Spencer) che si batte per i diritti degli afroamericani e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), omosessuale discriminato.

Sono loro ad assisterla – anche con l’aiuto dello scienziato Robert Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) - quando lei scopre l’esistenza del “mostro” che può diventare il suo principe: nascondendola ai cinici militari inquisitori e al feroce vendicativo colonnello Strickland (Michael Shannon) quando incomincia ad accostarsi a lui svelandone impensabili umane sensibilità in un lento, paziente e per nulla pavido rapporto, fatto prima di segni quasi impalbabili, via via sempre più intenso e convinto nelle forme d’un dialogo destinato ai sentimenti più teneri e commoventi. Contro tutto e contro (quasi) tutti, apparentemente antagonista alla natura, tuttavia immerso  in quella stessa, acquatica natura come in una realtà onirica e travolgente.

Mitologia, leggenda, horror e fantascienza

Una sorta di orizzonte utòpico-gotico che Guillermo Del Toro veste di fiaba dark tra mitologia, leggenda, horror e fantascienza recuperando di quest’ultima l’intera estetica cinematografica anni Cinquanta, non solo nella proposta ambientale e scenografica ma addirittura nelle sembianze di quella creatura replicante il Mostro della Laguna Nera di Jack Arnold. In un elegante, seduttivo e tenebroso effluvio di citazioni galleggianti tra il Jean Cocteau de La Bella e la Bestia, gli echi disneyani e le infinite declinazioni di King Kong.

Immaginario visivo angoscioso e sublime

Ma tredici candidature agli Oscar, i Golden Globes già conquistati e un Leone d’Oro non arrivano per caso e solo su un gioco di riferimenti più o meno cólti. La dimensione magica di questo film, che idealmente perfeziona nel cineasta messicano i sentieri battuti con Il labirinto del Fauno e La spina del diavolo, disegna il riscatto dalla diversità in cifra ecologistica elaborando un immaginario visivo angoscioso e sublime, metaforico e struggente. Creando tensione e collisione fra la crudezza della Storia e le sue vittime, fra i suoi aguzzini e i suoi interpreti più vulnerabili e “altri”.

Quello spettacolo diventa “autosufficiente”

Lo spettacolo, in verità, oltre l’impulso civile che l’accompagna e certamente lo ispira idealizzandolo, può bastare, per così dire, anche a se stesso: perché le suggestioni che sollecita con l’ estro visionario e avvolgente del suo autore (col supporto della fotografia fastosa di Dan Laustsen) ottengono spesso un riscontro di intenso contagio emotivo e puro piacere visuale. In un’ottica di straniamento mai tanto vicina alla partecipazione.

Per saperne di più

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